COME A VERDUN

di Guido Viale - 13/06/2022
Le possibilità di un armistizio passano oggi per la lotta senza quartiere contro l’invio di armi in Ucraina: finché Zelenski ne riceverà o avrà motivo per attenderne altre è sempre più difficile che si prospetti una soluzione per porre fine al massacro.

Abbiamo 100, anzi 200 “perdite” al giorno, afferma Zelenski. Secondo il generale Mini, anche 300. Perdite vuol dire soldati “caduti”, cioè uccisi; morti: da rimpiazzare ogni giorno con altre 100-300 “unità” destinate alla stessa sorte. Giorno dopo giorno. Altrettanto, se non di più, sono i “caduti” dell’esercito russo, dall’altra parte dei fronte.

Poi ci sono i feriti, molti dei quali amputati o destinati a esserlo; tutti comunque segnati da un trauma difficile da rimarginare. E poi ancora, i morti tra la popolazione civile, in una guerra dove si tirano giù a cannonate i condominii con dentro i loro abitanti. Oggi lo fa (solo?) l’esercito russo, ovunque arrivi, come ieri lo facevano l’esercito e le milizie ucraine in Donbass.
Poche – sempre meno – le prospettive di una risoluzione del conflitto a breve; più probabile uno stallo guerreggiato che prolunghi indefinitamente il bilancio quotidiano di quel massacro. Perché da una parte e dall’altra del fronte si mira alla “vittoria”, avendo sempre meno chiaro in che cosa possa consistere.

Le armi di cinquanta e più anni fa sono state quasi tutte consumate, insieme ai soldati che le manovravano; adesso devono arrivare i “rimpiazzi”: sia di mezzi che di uomini. Di uomini sempre meno adatti al combattimento; e forse anche meno proni a combattere. Di mezzi, cioè armi, quante ne riuscirà a sfornare l’industria russa e quante ne saranno disposti a cedere gli Stati maggiori di Nato, Stati uniti e Stati membri dell’Unione europea; prima di entrare eventualmente in campo direttamente.

Ma anche se le armi sono moderne e i combattenti sono abbigliati come “robocop”, questo modo di combattere è vecchio di un secolo. L’immagine che viene immediatamente alla mente è quella della battaglia di Verdun tra Francia e Germania nella “Grande guerra”, durata 10 mesi in situazione di stallo e costata 140mila morti e 300mila feriti e “dispersi” – cioè morti anche loro - alla Germania e 160mila morti e 380mila feriti e “dispersi” alla Francia.

Un massacro. Che, a distanza di un secolo, ci fa dire da tempo, tanto da trovarlo scritto anche sui manuali scolastici di storia, che gli Stati maggiori di entrambi i paesi che mandavano le “loro” truppe all’assalto, cioè a farsi ammazzare a ondate successive – per poi “rimpiazzarle” con truppe “fresche”, “votate”, cioè condannate, alla stessa sorte – erano dei criminali; e che quella guerra e quel modo di combattere erano stati un massacro inutile e insensato.

E se lo si dice dei generali e dei capi di Governo di allora, perché non lo si può dire di quelli di oggi? Certo oggi c’è un aggredito e un aggressore mentre a distanza di anni è difficile dire chi fosse l’aggredito e chi l’aggressore nella Grande guerra. Aggressore sarebbe risultato, più che il primo a dichiararla, chi quella guerra l’aveva persa. L’aggredito, quindi, chi l’aveva vinta.
Poi, rivedendo le cose in sede storica, non si può fare a meno di riconoscere che, nel pieno della Belle époque, i germi di quel massacro che avrebbe cambiato la storia del mondo covavano da tempo da entrambe le parti.

E perché non si può dire la stessa cosa anche di questa guerra? Sono in tanti, nonostante l’ostracismo a cui vengono sottoposti, a sostenere che le premesse per scatenare l’aggressione di Putin all’Ucraina erano state poste da tempo dall’allargamento della Nato (di fatto, anche all’Ucraina; anche se in forma non ufficiale; e nel pieno di un’aggressione alle popolazioni del Donbass). Premesse non molto diverse da come il trattato di Versailles aveva prima favorito l’ascesa di Hitler e poi innescato la sua guerra di aggressione, contando a farne le spese sarebbe stata solo l’Unione sovietica.

Anche oggi c’è chi, dall’altra parte dell’oceano Atlantico, conta che a fare le spese della guerra in Ucraina, oltre ovviamente ai soldati e ai civili di quel paese, debba essere l’Unione europea.
Oggi entrambe le parti in causa (ma quali?) puntano alla “vittoria”, che esclude qualsiasi possibilità di mediazione e di compromesso: “sarebbe una resa” si dice. Quindi c’è solo da mandare armi. Lo dicono soprattutto coloro che non sono chiamati a combattere. Certo, oggi lo dicono, o lo sentiamo dire nei reportage della TV, anche i soldati e i civili ucraini che si trovano sotto il fuoco russo.

Ma come cent’anni fa, anche oggi quel clima da “maggio radioso” che aveva accompagnato l’entrata dell’Italia nella Grande guerra è destinato a sgonfiarsi mano a mano che l’insensatezza di quella parola d’ordine – “fino alla vittoria” - e il moltiplicarsi dei lutti cominceranno a bucare la scorza di finto orgoglio che ha reso possibile la mobilitazione in Ucraina. E già se ne vedono i primi segnali.
Ma più passa il tempo e più le condizioni di un compromesso si assottigliano: quello che era ancora possibile – e relativamente semplice - prima dell’aggressione russa oggi non lo è più; né Zelenski né Putin possono farsi promotori di una mediazione. Meno che mai ha senso proporre una mediazione continuando a mandare armi. Bisognerebbe che almeno questo Draghi e Macron lo capissero.

Per questo, oltre alle sacrosante carovane della pace e alle prospettate iniziative di interposizione, le possibilità di un armistizio passano oggi per la lotta senza quartiere contro l’invio di armi in Ucraina: finché Zelenski ne riceverà o avrà motivo per attenderne altre è sempre più difficile che si prospetti una soluzione per porre fine al massacro.

Ma non è lui che deve arretrare. E’ la Nato. La fine di questo conflitto passa di lì: per l’arretramento delle installazioni militari dei due veri contendenti. E questo fa capire quanto sia ancora lontana.

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