Dopo il cessate-fuoco

di Emilia De Rienzo - comune-info.net - 01/12/2025
Continuare a raccontare — con i fatti, con le voci, con la verità — è il minimo che dobbiamo a un popolo che non vede la pace da generazioni e che continua, ostinatamente, a esistere.

Il cessate-fuoco avrebbe dovuto restituire respiro. Invece, a Gaza non è tornata la pace: è tornato soltanto il silenzio, quello che accompagna le vite sospese, l’attesa senza futuro, la sopravvivenza che si consuma nel fango.

Le piogge hanno trasformato i campi profughi in paludi. Le famiglie cercano di fermare l’acqua con stracci e abiti bagnati, di proteggere i bambini sollevandoli da terra, di asciugare coperte e vestiti che resteranno umidi per giorni. Le latrine improvvisate tracimano, gli odori penetrano ovunque, le malattie si diffondono. Nessuno può chiamare questo “vivere”.

Che cosa resta a un popolo quando anche la dignità elementare — lavarsi, dormire asciutti, proteggere i figli — viene negata?

Mentre il mondo guarda altrove, l’avanzata militare continua. Si chiama “linea gialla” ed è una frontiera mobile che ridisegna Gaza ogni giorno. Funziona così: un’area viene dichiarata zona militare, le case vengono demolite, i quartieri appiattiti, i terreni occupati. Poi la linea si sposta un po’ più in là. E ricomincia.

Chi prova a tornare nella propria abitazione — quella che sulla mappa “dovrebbe” essere fuori dalla zona controllata — rischia di essere colpito. Non servono annunci ufficiali, non servono spiegazioni. Basta che la linea si sia spostata, anche solo di qualche metro, anche quella notte stessa.

È una strategia silenziosa ma efficace: restringere lo spazio vitale finché non resta più nulla da rivendicare. Cancellare non con un colpo solo, ma giorno dopo giorno, metro dopo metro.

Intanto, la popolazione cerca di resistere. Servirebbero migliaia di camion di aiuti al giorno. Ne entrano pochi. Le attese ai checkpoint si allungano, gli ostacoli si moltiplicano, e ogni ritardo significa un bambino che non mangia, un anziano che muore di freddo, una madre che non ha nulla con cui curare i suoi figli.

Non è disorganizzazione. Non è burocrazia. È una scelta precisa: rendere impossibile la vita, normalizzare l’abbandono, far scomparire un popolo non con un colpo improvviso, ma con un logoramento continuo.

E questo accade per mano di uno Stato che ama definirsi democratico, che rivendica una grande tradizione culturale, che chiede riconoscimento internazionale mentre nega agli altri persino il diritto a un tetto asciutto.

Si parla troppo poco di tutto questo. Troppo poco dell’ingiustizia, troppo poco del dolore. I titoli dei giornali sono passati oltre, le riunioni internazionali hanno archiviato il dossier, i social media hanno trovato altre emergenze.

Ma a Gaza una donna continua a svegliare i suoi figli nel fango, un padre continua a cercare acqua potabile per ore, un bambino continua a dormire con la paura che la linea gialla arrivi fino alla sua tenda nella notte.

Continuare a raccontare — con i fatti, con le voci, con la verità — è il minimo che dobbiamo a un popolo che non vede la pace da generazioni e che continua, ostinatamente, a esistere.

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