La notizia riportata dal Guardian il 22 luglio 2025 sulla distruzione da parte dell’esercito israeliano del centro logistico e della residenza del personale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Deir al-Balah non rappresenta un’eccezione, bensì l’ultima tessera di un mosaico già compiuto. Una strategia dell’annientamento che colpisce proprio là dove l’umano, ancora, si ostina a sopravvivere: nei luoghi di cura, negli spazi di rifugio, nei silenzi del diritto internazionale violato e reso irriconoscibile.
La residenza degli operatori della WHO colpita tre volte. Personale ammanettato, denudato, interrogato sotto minaccia, bambini e madri costretti a fuggire a piedi sotto i bombardamenti. Il magazzino centrale dato alle fiamme. Tutto questo non è un effetto collaterale, è un messaggio chiaro, preciso, devastante. Lo sanno i comandanti, lo sanno gli ufficiali, lo sanno i generali che le coordinate ONU sono condivise in tempo reale. Lo sanno e colpiscono. Colpiscono perché è un atto dimostrativo: nessun luogo è inviolabile, nessuna neutralità sarà rispettata, nessun operatore umanitario verrà risparmiato.
Proprio ieri ventiquattro Paesi hanno firmato un appello per il cessate il fuoco, e la reazione è stata sterminare ancora, oltre ciò che può dirsi lecito, in una rappresaglia figlia di un delirio di grandezza mescolato alla certezza dell’impunità. Le stesse ore in cui veniva pubblicato l’appello hanno visto l’intensificarsi degli attacchi su Deir al-Balah, con raid mirati contro la residenza WHO, i magazzini umanitari e le abitazioni civili. I droni hanno colpito zone già segnalate all’ONU come aree protette, violando apertamente ogni norma del diritto internazionale. Non un effetto collaterale, ma una risposta deliberata: una punizione simbolica inflitta a chi osa invocare la pace. Si continua a bombardare non nonostante l’appello, ma anche perché c’è stato l’appello. Come se il mondo avesse osato troppo, e andasse punito. Hanno detto che i firmatari "sono fuori dalla realtà"...
A Gaza si muore di denutrizione mentre il grano marcisce sotto la protezione doganale dell’inerzia diplomatica. Nessuno è autorizzato a chiudere gli occhi, nessuno può chiamarsi fuori. Chiunque abbia voce, mestiere, strumenti, parole, coscienza, può prendere posizione. In qualunque forma, in qualunque contesto, nei modi e nei linguaggi che gli sono propri. L’assassinio di un popolo non è materia neutra, non è questione da rimandare, da derubricare a complicazione geopolitica, da appaltare a esperti di equilibri regionali. È un appello a rispondere, un imperativo etico che non riguarda soltanto chi muore, ma chi vive.
Ciò che è accaduto a Deir al-Balah è una ferita non più raccontabile nella lingua dei comunicati. In un campo profughi già colpito molte volte, mentre i bambini dormivano, l’esercito israeliano ha colpito deliberatamente un’abitazione in cui si rifugiavano decine di sfollati. I corpi estratti dalle macerie, bruciati, smembrati, irriconoscibili, sono l’immagine terminale della nostra epoca. Un tempo in cui il diritto internazionale è carta da archiviare, i crimini di guerra sono razionalizzati, e la brutalità si fa programma militare con consenso esplicito o implicito delle potenze occidentali. A Deir al-Balah sono stati uccisi i soggetti di diritto internazionale: i civili protetti. Sono state uccise le promesse dell’Onu, le convenzioni di Ginevra, la sacralità dell’infanzia. E sono stati uccisi sotto gli occhi dei firmatari di appelli diplomatici.