La guerra in Ucraina è arrivata dove doveva arrivare: allo scontro nucleare. Perché fin dall’inizio, anzi da molto prima del suo inizio, non era una guerra tra Russia e Ucraina, o tra Putin e Zelenski, ma tra Nato e Federazione russa. Non fermarla, non cercare di fermala, aveva un esito obbligato.
A tutti coloro che in questi mesi hanno sostenuto l’invio di armi al governo e all’esercito ucraino, facendo del nostro paese e dell’Unione europea una parte belligerante in nome di un’alternativa secca – vittoria o resa – avevamo chiesto: dove pensate di arrivare? E che cosa significa vittoria? Ritiro dell’esercito russo? Destituzione di Putin? Dissoluzione della Federazione russa e sua trasformazione in una grande Libia? Biden si era pronunciato fin dall’inizio per quest’ultima ipotesi, anche se poi aveva in parte ritrattato. Tutti gli altri (tranne la nuova Premier britannica) avevano evitato di rispondere, ben sapendo che se Putin - che è un dittatore paranoico, forse con poco ancora da vivere e, sicuramente, al governo senza alcuna collegialità - non cade, prima della dissoluzione della Federazione russa non c’è che la Bomba. Forse qualcuno sperava che a far cadere Putin avrebbe provveduto il suo entourage, che peraltro pare ancora più bellicoso di lui; oppure una sollevazione contro la guerra delle popolazioni della Federazione, che sta crescendo ma è ben lungi dalla possibilità di ottenere un risultato in tempi brevi.
Ma il vizio di fondo delle posizioni pro armi è quello di aver posto come unica alternativa alla vittoria la resa; senza voler vedere che in mezzo c’è, la possibilità e la necessità di promuovere una mediazione; e c’era anche prima dell’invasione russa, che si sarebbe potuta evitare se solo si fossero rispettati gli accordi di Minsk 2, violati da entrambe le parti. Una mediazione che si può proporre anche ora; certo, a costi (solo in parte già pagati con migliaia e migliaia di morti, distruzioni e miseria) molto più alti per entrambe le parti. Ma di certo non si può “mediare” mandando armi e schierandosi con una delle parti. Questo Draghi l’avrebbe dovuto capire.
Ma adesso, di fronte a Biden e al Pentagono (in questa partita il governo italiano, che non c’è, e l’Unione europea contano meno di niente) si pone, in termini moltiplicati per mille, la stessa alternativa: continuare a far combattere l’Ucraina, fino alla “vittoria”, che non ci sarà, perché arriva prima la Bomba, o “arrendersi”? Cioè riconoscere che di fronte alla prospettiva di una nuclearizzazione del conflitto bisogna fermarsi? E lasciar campo libero a una mediazione che per ora non è alle viste perché se ne è negata la possibilità e la si è impedita in tutti i modi, lasciandosi dietro le spalle quel panorama di morti, di edifici distrutti, di esistenze devastate, di futuri azzerati che la guerra ha provocato finora.
Un appunto andrebbe fatto agli Stati maggiori del nostro paese e degli altri Stati europei cobelligeranti e ai governanti che li hanno spinti o assecondati in questa avventura: non si va in guerra contro un “nemico” da cui dipende la possibilità di tenere in vita e in funzione la propria economia (cioè la possibilità stessa di continuare a fare la guerra). Meno che mai ci si può indignare perché il nemico ti taglia le risorse necessarie per continuare a fargli la guerra; ma forse anche a far funzionare il proprio paese. Prima ci si attrezza per rendersi autonomi. Lo capirebbe anche un bambino.