La Palestina non ha bisogno di parole

di Barbara Spinelli - Ilfattoquotidiano.it - 06/08/2025
Molti Paesi occidentali promettono di riconoscere lo Stato palestinese. I gazawi vogliono la fine delle proprie sofferenze Ma l’Europa è fuori tempo massimo: non potrà più dire “non sapevamo”

Ogni tanto i giornali occidentali annunciano nuovi fremiti e ripensamenti nei governi europei, nuove iniziative per fermare Netanyahu a Gaza e in Cisgiordania.

L’ultimo fremito viene chiamato addirittura tsunami: un’ondata di riconoscimenti dello Stato palestinese, apparentemente iniziato da Macron in Francia e Keir Starmer in Gran Bretagna (il 75% dei Paesi Onu ha già da tempo riconosciuto). Singolarmente perfida la mossa britannica: il laburista Starmer riconoscerà lo Stato palestinese “a meno che Israele non consenta a una tregua”. Se Netanyahu consente, niente riconoscimento. Gideon Levy, commentatore di Haaretz, chiede: “Se riconoscere la Palestina può favorire una soluzione, perché presentarla come una penalità?”.

Il fatto è che il riconoscimento non mette fine a quello che vediamo: i bambini e gli adulti ridotti a scheletri come gli scampati di Auschwitz, la Fondazione Umanitaria di Gaza gestita da contractors americani e militari israeliani, incaricata di uccidere ogni giorno decine di affamati.

Poi c’è l’idea inane di paracadutare cibo e qualche medicina. Ma i medici che lavorano a Gaza testimoniano quel che accade quando stai morendo di fame. Se dai pane alle persone che vediamo smagrite e agonizzanti li ammazzi, nemmeno servono più le flebo di acqua e sale.

Di altro hanno bisogno, spiega la pediatra americana Tanya Haj-Hassan, volontaria a Gaza: di terapie complesse, di speciali macchinari, di siringhe, flebo, di un insieme di medicine che rimettano in moto una parte almeno dei corpi: “Il primo organo che muore è l’intestino, poi cedono i polmoni, poi si fermano cellule del cervello”. Impossibile praticare terapie specialistiche in ospedali semidistrutti, “dove mancano macchinari, elettricità, acqua, praticamente tutto”.

Quanto ai medici, anche chi sopravvive è ridotto alla fame. Come sono affetti da inedia i reporter palestinesi, che ogni giorno i tg dovrebbero ricordare perché lavorano e muoiono al posto dei nostri giornalisti, distaccati in Israele. Fin dal massacro di Sabra e Shatila, nel 1982, i governanti israeliani sanno, perché lo disse Ariel Sharon, che il silenzio stampa è indispensabile. Per questo non è ammessa la stampa estera in Palestina. Per questo Al Jazeera è stata cacciata da Israele e dalla Cisgiordania occupata.

Non si sono sentiti una sola volta i tg italiani, pubblici o privati, ringraziare i colleghi in Palestina, denunciare chi li assassina e affama. Generalmente i filmati su Gaza vengono mostrati come se fossero girati dalle nostre tv. L’agenzia France Presse, il 22 luglio, denuncia le condizioni dei propri reporter palestinesi e racconta quanto scritto su Facebook da uno di loro, Bashar, il 9 luglio: “Non ho più la forza di cooperare con i media, il mio corpo è magro, non posso più lavorare”.

I governanti europei che in queste condizioni s’accingono a riconoscere lo Stato palestinese – non subito: il 9 settembre all’assemblea Onu – si pavoneggiano come eroi, perché Netanyahu li insulta e perché pensano di sfidare Trump, subito dopo essersi collettivamente inginocchiati sulla questione dei dazi. Chissà cos’hanno in testa, oltre alla paglia.

Chissà cosa immaginano di fare, quando promettono di riconoscere una Palestina che sta estinguendosi, e che da tempo non può divenire Stato perché nei territori occupati vivono ormai più di 800.000 coloni, in gran parte armati e decisi a uccidere o cacciare il maggior numero di palestinesi. Ha detto una dirigente dei coloni, Daniella Weiss, sul Canale 13 israeliano: “Apro la mia finestra e non vedo nessuno Stato palestinese”. Scrive ancora Gideon Levy, il 3 agosto: “Riconoscere lo Stato palestinese è un gesto puramente verbale e vuoto. È la falsa alternativa al boicottaggio e alle misure punitive”. Il misfatto degli europei non è il silenzio ma l’inazione.

I capi occidentali ripetono intanto aggettivi idioti: quel che accade è inaccettabile! intollerabile! Se davvero accettare fosse loro impossibile, agirebbero o crollerebbero a terra. In realtà sanno che si tratta di genocidio, perché la Convenzione internazionale è chiara: il crimine è tale se “sono commessi atti con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”.

Ma neanche questa diatriba ha senso, se resta solo verbale. Ai cittadini e bambini straziati perché la Palestina perda il proprio futuro non importa sapere il nome che diamo alla mattanza. Quel che dicono è: fermate l’assassino, negoziate, venite in massa subito con tutte le vostre marine nazionali per portarci macchinari medici, generatori elettrici, specialisti in carestie e amputazioni, oltre al cibo. E sappiate che anche il mare è vietato da Israele e non c’è modo di alleviare la calura o raccogliere cibi che cadono lì.

Intanto uno dei massimi storici della Shoah, l’ex soldato israeliano Omer Bartov, parla di genocidio (nel novembre ’23 denunciò le “intenzioni genocide” di Israele). Lo stesso termine è adottato da due autorevoli associazioni israeliane, B’Tselem and Medici per i Diritti Umani in Israele, e anche dallo scrittore David Grossman. Tutti costoro fanno proprio il linguaggio della relatrice Onu Francesca Albanese. Ma ecco che sul termine s’aprono dibattiti, e la senatrice Liliana Segre a esempio non è d’accordo. Gelosamente tenuto in serbo per gli ebrei, il termine è perversamente banalizzato e autodistruttivo per Israele (dunque non furono genocidi la liquidazione dei popoli Herero e Nama nell’odierna Namibia, fra il 1904 e il 1908 da parte dei coloni tedeschi; degli armeni durante la Prima guerra mondiale; dei Tutsi in Ruanda; delle minoranze etniche da parte dei Khmer rossi).

Definire il crimine serve a giudicare Israele e i suoi complici, ma se è solo disputa non aiuta. È come quando i giornalisti menzionando un assassinio dicono “ed è subito giallo”, e chi si ricorda più del morto. L’unica cosa che importa, a chi muore di fame, di bombe e di fucilazioni è che l’orrore finisca, che Netanyahu sia forzato a negoziare tramite un ultimatum ravvicinato. Che cessino, se l’ultimatum è disatteso, le forniture d’armi, le relazioni diplomatiche e economiche con Israele. Che venga richiamata all’ordine, pena sanzioni, ogni azienda fornitrice di armi, componenti militari, ordigni a duplice uso civile e militare, eccetera, che Francesca Albanese elenca nel suo rapporto per l’Onu del 30 giugno (ora in edicola con il Fatto). Nessuno sembra averlo letto per intero, riempiendo di soddisfazione le aziende citate.

Naturalmente è Washington che conta di più, ma almeno l’Europa potrà dire di aver fatto qualcosa, se non si limita a riconoscere lo Stato palestinese e soccorre davvero. Forse un giorno sarà in grado di ammettere che poteva agire fin da quando l’ex ministro della difesa Yoav Gallant promise, due giorni dopo l’eccidio del 7 ottobre ’23: “Procederemo all’assedio completo di Gaza: niente elettricità, niente cibo, niente acqua, niente gas. Stiamo combattendo animali e agiamo di conseguenza”. Chi potrà dire ai propri discendenti: “Non sapevamo”?

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