L’attacco israeliano all’Iran, incompatibile con il diritto internazionale, trova dei “pasdaran” occidentali che si identificano con qualunque iniziativa del governo Netanyahu, ignorando perfino le voci israeliane in dissenso con l’escalation continua di questa guerra permanente.
Ormai è chiaro che la bomba nucleare iraniana è stata sventolata come giustificazione per i bombardamenti preventivi, come è avvenuto con la provetta di Powell, prova regina (falsa) per giustificare l’attacco all’Iraq. Ora sappiamo dai servizi segreti USA e dall’AIEA che l’Iran era lontano dalla bomba. Il governo Netanyahu ha affermato, senza prove, che la bomba era vicina perché voleva impedire trattative dirette e un accordo tra americani e iraniani. Pensandoci bene, è una scelta che ricorda quella di Hamas il 7 ottobre per bloccare gli accordi di Abramo.
Nel 2015 si era arrivati, con Obama, a un accordo per evitare l’atomica iraniana. Accordo stracciato nel 2016 dal 1° governo Trump. Ora il 2° governo Trump ha avviato le trattative per un nuovo accordo e Israele l’ha fatto saltare, proseguendo come in Libano e in Siria con tecniche di uccisione degli avversari e bombardamenti a tappeto, provando a mettere in secondo piano l’orrore continuo che sta subendo la popolazione di Gaza, che muore per le bombe, per la fame, per la mancanza di strutture sanitarie e igieniche, per mancanza di mezzi di sussistenza.
Non c’è da tempo proporzione tra il massacro del 7 ottobre e le quasi 60.000 vittime civili, bambini in particolare, a Gaza.
Questa situazione è inaccettabile e va fermata. Il governo Netanyahu rilancia continuamente nuovi fronti di guerra e allarga il conflitto: Gaza, Libano, Siria, Yemen, ora Iran.
Cosa farà Trump, dopo aver esaurito i petali della margherita: bombarda o non bombarda a fianco di Israele? Se gli USA dovessero entrare nel conflitto direttamente (già ora forniscono a Israele i mezzi per la guerra) le conseguenze dell’escalation sarebbero imprevedibili. La speranza è che falliscano le trappole di Netanyahu per costringere gli USA a entrare in guerra.
Su Gaza è bloccato ogni intervento per fermare il massacro, approfittando del balzo in primo piano dei bombardamenti all’Iran, ma la sofferenza della popolazione civile è arrivata a livelli insopportabili.
La priorità oggi è fermare i conflitti, a partire da quelli più pericolosi, arrivare al cessate il fuoco e a trattative di pace, in prospettiva ad accordi stabili. Per riuscirci occorre interrompere la prevalenza della politica di potenza, che parte dai paesi più forti e che ha messo ai margini il ruolo delle sedi internazionali, ormai emarginate.
Il sogno di Roosevelt di dare al pianeta, dopo la seconda guerra mondiale, sedi e regole per evitare il ripetersi di conflitti mondiali e affrontare i problemi senza guerre, è oggi in crisi verticale. Ma il sogno indicava la via giusta, anche se oggi l’ONU ricorda tristemente più l’incapacità di operare della Società delle Nazioni che l’aveva preceduta. Anzi l’ONU avrebbe dovuto operare proprio per superare i limiti della Società delle Nazioni. Se ci si rassegna a questa deriva, le prepotenze dei rapporti di forza continueranno. Per di più, anche all’interno dei singoli stati democratici la pressione dell’ideologia della forza e della guerra per regolare i conflitti diventerà un’infezione difficile da sradicare.
Le sedi internazionali, a partire dall’ONU, hanno svolto un ruolo importante anche nel periodo della guerra fredda. Esse sono entrate in crisi man mano che le potenze mondiali hanno deciso unilateralmente di imporre i propri obiettivi, talora ricorrendo a coalizioni di volenterosi compiacenti. Quando hanno puntato a rovesciare regimi politici hanno creato caos e distruzione; paesi come la Libia sono lì a ricordarcelo. In ogni caso, solo la legittimazione internazionale può decidere di intervenire per un regime change. Questo nulla toglie al sostegno totale alla lotta all’insegna delle parole d’ordine: donna, vita, libertà.
Questa deriva ha ridotto le sedi internazionali a un ruolo subalterno, addirittura inesistente. Pensiamo a Gaza: l’UNRWA – agenzia dell’ONU – è stata esclusa dagli aiuti alla popolazione, che sono stati privatizzati sotto il controllo di Israele, la potenza dominante, tanto che la (poca) assistenza alimentare viene data con modalità che portano a ulteriori massacri e umiliazioni. Le organizzazioni dell’ONU sono messe all’angolo dalla furia trumpiana, ad esempio con il ritiro dall’OMS, con il taglio degli aiuti umanitari alle stesse organizzazioni americane di solidarietà.
Pesa purtroppo la subalternità dei paesi europei, che in poco tempo hanno assistito senza reagere alla situazione di Gaza, alla guerra in Libano, all’occupazione di una parte del territorio siriano, ad altri bombardamenti vari e ora all’attacco all’Iran.
L’Europa dovrebbe caratterizzarsi per iniziative di distensione, di assistenza, di pace e invece finisce con l’essere succube di una politica di potenza degli USA che usa l’aumento dei dazi come una clava, e subisce un aumento delle spese militari dei paesi NATO al 2%, livello che gli stessi USA non impongono, costringendo a tagli di bilancio nelle voci sociali. In sostanza, dal welfare al warfare. Anzi, talora quando si è distinta dagli USA, l’Europa lo ha fatto in modo incomprensibile, sostenendo posizioni più rigide come nel caso dell’Ucraina, anziché cercare vie di pace.
La priorità ora è ricostruire una cultura, una politica, un tessuto internazionale che organizzi la coesistenza tra le diversità, altrimenti prevarrà lo sfoggio della forza e la riduzione dei rapporti internazionali a clan di nazioni che si guardano in cagnesco.
Chi ritiene che l’unico modo per risolvere le controversie sia la guerra, addirittura senza quartiere, deve avere ben poca considerazione per l’attrattiva dei cosiddetti sistemi democratici, che pure negli ultimi tempi mostrano crepe e deviazioni notevoli, anche come effetto del clima di guerra.
Eppure è dal confronto tra sistemi che è arrivata la fine dell’Unione Sovietica senza precipitare nel conflitto distruttivo; è sufficiente ricordare l’unificazione tedesca.
Il confronto tra sistemi istituzionali e sociali resta l’unico modo per fare risaltare i pregi e far comprendere i difetti dei diversi sistemi. Questo confronto può avvenire solo in un clima di coesistenza tra sistemi diversi e di tolleranza, aiutando lo sviluppo di un confronto nei singoli paesi, evitando derive autocratiche che oggi sembrano prevalere.
Del resto, i tentativi di esportare la democrazia con la forza hanno dato pessimi risultati e grande instabilità.
Il riarmo, l’escalation verso un maggior numero di armi, sempre più devastanti, per fare fronte ai presunti pericoli di guerra, ha molte conseguenze negative. Il contrasto al cambiamento climatico rischierebbe di essere archiviato perché presuppone di arrivare ad accordi internazionali. Le guerre sono il contrario: uccidono, distruggono, inquinano e ingigantiscono i danni ambientali.
Il sistema economico viene orientato sempre più verso gli armamenti; infatti le quotazioni delle aziende che producono armi sono alle stelle. Dalla scuola alla ricerca, dalla qualità della produzione allo stato sociale, tutto finisce nel tritacarne della spesa per gli armamenti. Le scelte per la transizione energetica, come quelle per lo stato sociale, vengono drasticamente ridimensionate. Gli investimenti in armi, come chiedono Europa e NATO, fino al 5% del PIL, significano che l’Italia dovrà tagliare altre spese, come sanità, scuola e ricerca, ecc. Chi dice il contrario mente sapendo di mentire; si tratta di uno stravolgimento che porterà impoverimento e uno sviluppo distorto.
Tutto questo nel presupposto che in futuro la guerra con la Russia sarà inevitabile.
Siamo a un bivio: più armi, o pace e sviluppo sociale? Coesistenza tra diversi, o guerra infinita? Torniamo alle scelte fondamentali prima che sia troppo tardi. Per questo la manifestazione di sabato 21 è un contributo a reagire, a farsi sentire, a non sentirsi soli, prima che sia troppo tardi.