La guerra di Erdogan contro il Rojava è fatta per deportare una grande parte dei profughi siriani che l’Europa non vuole accogliere in un territorio trasformato in un enorme campo di concentramento a cielo aperto; dopo averne scacciato le popolazioni, curde e non solo, che lo abitano e lo hanno difeso con tutti i mezzi.
È dunque inutile girarci attorno: quella di Erdogan è una “guerra per procura” fatta per conto dell’Europa. A nulla valgono le dissociazioni e l’invito alla moderazione dei governi europei: l’Europa non muoverà un dito per fermare Erdogan, come non lo ha fatto di fronte alle sue continue violazioni della legalità e dei più elementari diritti umani, soprattutto a partire dal 2016, data del patto scellerato per affidare alla Turchia la “custodia” dei profughi siriani in transito verso il nostro continente.
D’altronde, questa combinazione di finta indignazione, ma di sostanziale complicità e aperta collaborazione (la Turchia è e resta un membro della Nato e le armi che utilizza contro i curdi sono in buona parte di fabbricazione europea, con annesse istruzioni per usarle “al meglio”) è lo stesso atteggiamento adottato dall’Unione Europea nei confronti della Libia, ovvero delle bande criminali che la governano: a parole, indignazione e dissociazione dai loro crimini – omicidi, schiavismo, stupro, estorsioni, annullamento della dignità – ormai riconosciuti non solo dalle Ong, ma anche dalle agenzie dell’Onu e persino da diversi ministri dei paesi membri; nei fatti, trattative, appoggio politico, forniture militari, finanziamenti e persino riconoscimenti ufficiali dei trafficanti libici, come rivelato dal quotidiano Avvenire a proposito di uno dei loro capi più feroci. Non sono le ONG a stringere accordi con i trafficanti libici, ma tutta l’Unione, e per suo conto il governo italiano, che promuovono e sostengono il martirio dei profughi intrappolati in Libia per “difendere i propri confini”
A fare le spese dell’aggressione scatenata da Erdogan è l’unica democrazia del Medio Oriente, che non è Israele, ormai costitutivamente impegnato in pratiche di apartheid e di repressione feroce dei nativi del suo territorio, ma la confederazione multietnica, tollerante, femminista ed ecologista del Rojava: una vera minaccia, non dall’esterno, ma dall’interno, per i regimi dispotici che spadroneggiano nella regione con la protezione dell’Occidente.
Dove porta tutto ciò? Alla scomparsa di quel che resta della “civiltà europea”. L’Europa non si ritiene in grado di accogliere i profughi siriani, anche solo temporaneamente; in attesa di un ritorno alla pace in cui evidentemente non crede e che non fa nulla per promuovere: con il loro arrivo “la stabilità tra i governi sarebbe messa di fronte a una prova che non è in grado di sostenere… e la sopravvivenza dell’Unione Europea sarebbe messa in discussione” scrive Andrea Bonanni su Repubblica, ma il suo è il pensiero di molti, se non tutti. Ma perché mai allora dovrebbe reggere una prova del genere la Turchia, senza precipitare, come è successo, in una condizione di rigetto radicale della democrazia e dei diritti umani? Lungi dal tener lontani i pericoli per la democrazia, gli accordi con la Turchia o con la Libia sono l’inizio della sua trasformazione in ciò che l’Europa sostiene di non voler mai diventare: uguale a loro.
Finché profughi e migranti verranno trattati come un peso e un costo al proprio interno (una minaccia per “lo stile di vita europeo”) e come nemici all’esterno (questo e non altro vuol dire “difendere le frontiere”) non esiste altra prospettiva che la militarizzazione della vita sociale (anche e soprattutto contro il dissenso e l’opposizione interna) e la guerra per respingere “l’invasione”. Ma se nelle “fortezze” è difficile entrare per i profughi, sarà sempre anche più difficile uscirne per i cittadini europei, anche solo per “fare affari”, cioè per sostenere “lo stile di vita europeo”.
C’è un’alternativa a tutto ciò? Sì. Trattare profughi e migranti non come un peso e un nemico, ma come una risorsa e una benedizione: non solo economica (per il loro lavoro e il loro contributo a pagarci le pensioni), ma anche demografica e culturale: per sopperire a tutti i vuoti che la vecchia Europa non sa più colmare.
Questa prospettiva è la conversione ecologica, il Green New Deal imposto dalla crisi climatica e affrontato non come una delega ai governi, alle imprese e alla finanza, di ciò che non hanno saputo né voluto fare finora, nonostante gli allarmi che risalgono ad almeno trent’anni fa, bensì come un processo di attivazione e di mobilitazione dal basso. Naomi Klein interpreta questa formula nel suo ultimo libro Il mondo in fiamme: un processo da portare avanti insieme ai profughi e ai migranti già arrivati sul “nostro” suolo, ma anche ai molti che cercheranno ancora di arrivarci; per preparare insieme a quelli di loro che lo vogliono (e sono in tanti) un ritorno volontario nelle loro terre per risanarle e ricostruirle, dopo aver imposto con una mobilitazione comune quella pacificazione che le grandi potenze che governano gli attuali conflitti non sapranno mai né individuare né promuovere.