Italo Mancini, il filosofo urbinate da pochi conosciuto e da tutti dimenticato, aveva detto che occorreva una violenza ermeneutica per rompere il circolo vizioso del pensiero dominante e poter comprendere la crisi del Novecento, e aveva così previsto l’ascesa della nuova destra al potere attraverso le “politiche di destra e di guerra”. Oggi ci vorrebbe questa violenza ermeneutica per capire che cosa Trump sta facendo, al di là della scontata critica alla sua condotta guascona.
Il suo programma è di “fare di nuovo grande l’America”, per cui non lo si può vedere solo come il volto più compiuto di un impero in declino o l’ultima “incarnazione del potere oligarchico americano”, i quali hanno mandato in malora l’America, come secondo lui ha fatto “il peggiore presidente degli Stati Uniti”, Joe Biden. Piuttosto l’America si è dissanguata per le guerre fatte anche per conto degli altri (l’“Europa scroccona”), e per essere stata derubata coi dazi, e le conseguenze sono state in America un freno all’arricchimento degli uni e una spinta all’impoverimento e alla frustrazione degli altri.
Trump è il primo governante del mondo che si dice contro la guerra non per ragioni ideali, vere o false che siano, ma perché è “stupida”, come è la guerra che ha rinfacciato a Zelensky e a Putin, in quanto produce migliaia e migliaia di inutili morti, e come sarebbe stata la guerra all’Iran, che egli a male parole (“che cavolo fate!”) ha bloccato sul nascere, dopo l’azione di copertura delle bombe sui siti nucleari iraniani, senza neanche rispondere ai pur simbolici missili lanciati dall’Iran contro la base americana in Qatar. Dichiarando insensata la guerra, Trump riprende il giudizio che già aveva formulato sessant’anni fa papa Giovanni XXIII quando aveva detto della guerra come fosse ormai “fuori della ragione”, cioè dell’umano. Essa non serve a raggiungere alcuno scopo. Ma non sempre è stata stupida, lo è diventata: per i Greci (Eraclito) era addirittura il padre e re di tutte le cose, poi, come ha ricordato Luciano Canfora sul Fatto, è servita a procurare bottino, schiavi, ricchezze e territori.
Ma oggi non è più così, anche le terre rare che Trump vuole dall’Ucraina non sono un dividendo della guerra, ma un risarcimento per gli aiuti. Oggi la guerra non ottiene nulla, non fa che distruggere e uccidere, e si risolve in terrorismo e genocidio (Hamas e Gaza), si rivolta contro chi la fa, è un suicidio. Tuttavia la guerra è oggi la costituzione materiale del mondo, è il sistema che lo struttura e ne determina le relazioni e la vita: pertanto è una istituzione che dovrebbe essere abolita per unanime consenso.
Trump, come ogni altro, non arriva a questo: però vuol rompere gli automatismi che portano alla guerra; semmai è lui a deciderla. Se si sta ai due documenti sulla ideologia della sicurezza nazionale americana e sulla difesa nazionale degli Stati Uniti, della Casa Bianca e del Pentagono, vigenti fino a ieri a partire dall’attentato alle due Torri, non si può non notare una discontinuità e una rottura con l’oggi.
Essi sostengono come la Russia sia ormai finita o prossima alla sconfitta e che la guerra finale, se del caso, sarebbe quella con la Cina; e se si leggono insieme all’articolo 5 del Trattato della Nato, si vede come essi inneschino un processo automatico che potrebbe non essere controllato più da nessuno e attivare un pilota automatico che ci porti dritto nella guerra mondiale; e se finora poteva sempre esserci un sussulto di coscienza del pilota dell’Enola Gay o il coraggio di un tenente colonnello come il sovietico Stanislav Petrov tali da evitare l’olocausto nucleare, domani l’Intelligenza artificiale potrebbe decidere che è venuto il momento dello scontro finale in obbedienza agli algoritmi da noi stessi creati. Ciò, per stare a Trump, non gioverebbe alla grandezza dell’America e al suo dominio sul mondo.
Ma allora perché tutte queste armi e queste spese militari, e il famoso 5 per cento del Pil? Gli europei non hanno capito niente, e come movente si devono inventare un Nemico, che senza troppa fantasia è individuato nella Russia, che se non proprio fino al Portogallo sarebbe pronta a dilagare nei Paesi baltici (Bernabè a Otto e mezzo). Trump invece pensa ai dollari, alla ricaduta delle commesse sulle industrie americane, e pensa a un uso keynesiano della spesa militare: “Una vittoria monumentale”, un piano Marshall, ma a suo favore, questo è il suo movente. Il più affine a questo calcolo è il cancelliere Merz, che non può sfiorare il ridicolo pensando a una nuova Operazione Barbarossa, ma conta su un imponente e incontrastato afflusso di denaro pubblico per costruire l’economia più forte del continente. Secondo le vecchie regole del capitalismo, l’economia cresce anche con l’inutile, si possono scavare fosse e poi riempirle di nuovo, e il Pil cresce.
Così si scopre anche la lezione di un altro grande intellettuale del Novecento, Ivan Illich: la controproduttività derivante da una dissennata dottrina dello sviluppo: si fanno più automobili e si va più lenti (tutti fermi in autostrada!), si fanno più medicine e ci si ammala di più (la “Nemesi medica”!) si fanno più prodotti e si è sempre più assoggettati al dominio delle cose sull’uomo (l’alienazione).
Trump, per fare più grande l’America, conta sulla controproduttività delle armi: si moltiplichino gli armamenti, ma che per carità non ci si faccia la guerra. È il suo “new deal”. In fondo l’adempiente Meloni dice la stessa cosa: si vis pacem, para bellum, armiamoci e non partiamo.