L’avvento di Enrico Letta alla segreteria del Partito democratico non è un semplice passaggio di consegne dettato dalle dimissioni di un deluso Nicola Zingaretti e dalla assenza di altri candidati che potessero acquietare le turbolenze delle varie correnti. Rappresenta un salto di qualità in negativo per l’intero Pd, sempre più sospinto da una scelta governista che si è venuta via via rafforzando per diventare l’unica strategia di quel partito. Ha ragione Cuperlo nel constatare che “da quindici anni non vinciamo un’elezione politica e nonostante ciò per oltre undici di questi quindici anni siamo stati al governo del paese”. Ma il pericolo che il governo diventi il fine e non il mezzo è realtà compiuta e bisogna trarne le dovute conseguenze.
Il Pd ha accettato la convivenza governativa con la Lega, ma non poteva sopportare di perdere peso nel governo Draghi, come è accaduto soprattutto con l’esautorazione di Gualtieri dal ministero dell’Economia, neppure salvato dall’accredito che poteva vantare a livello europeo.
La chiamata di Letta come salvatore di una barca che fa acqua è una ulteriore spinta lungo la deriva governista. Se finora erano i segretari del Pd a diventare presidenti del Consiglio, questa volta il percorso è inverso. Da partito-stato a stato-partito, si potrebbe dire con un po’ di ironia. I mass-media si sono sbizzarriti a trovare convergenze fra Draghi e Letta, unificandoli nel filone “riformista”.
Viene ricordato che Letta fu uno degli allievi prediletti di Beniamino Andreatta, il celebrante del divorzio fra Tesoro e Bankitalia e Draghi fu, negli anni Ottanta, consigliere del ministro del Tesoro del tempo e nei Novanta direttore generale di quel ministero – dalla cui tolda di comando diresse la campagna delle privatizzazioni – per poi nel 2006 giungere alla presidenza di Bankitalia. Il nuovo assetto dirigente del Pd serve quindi ad assicurare solidità e durata al governo Draghi, cercando anche di frenare l’esuberante protagonismo di Salvini.
Ma se questo è il quadro che si sta delineando, si avverte ancora di più la mancanza di una sinistra nel paese. Cui non si può rispondere immaginandosi improvvisi ripensamenti in casa Pd o affidandosi alle improbabili Agorà di Goffredo Bettini, cui invece Mario Tronti, in una recente intervista giornalistica, sembra dare credito. Né si può sperare che sommando le microforze esistenti alla sinistra del Pd si riesca a scavallare i prossimi appuntamenti elettorali, siano essi amministrativi che nazionali – legge elettorale permettendo in questo secondo caso – e sulla base di questo ridare fiato a una forza di sinistra.
Le esperienze passate, anche quando hanno superato il quorum, dimostrano che non è dalle urne che parte una nuova soggettività politica. C’è un’unica possibilità. Aprire un processo costituente inclusivo, in cui forze più o meno organizzate, associazioni, gruppi, esperienze di lotte territoriali si possano incontrare considerandosi transitorie per raggiungere un esito non predefinito e non predefinibile, essendo appunto il frutto di un processo costituente. Le energie per aprire un simile processo non mancano se si guarda non tanto a ciò che resta della sinistra d’alternativa organizzata, ma soprattutto alla vivacità di azione e di pensiero che è emersa, proprio in questa drammatica crisi pandemico-economica, a livello della società civile. Se si guarda alla conflittualità crescente, con risultati concreti, in settori frammentati come i riders, o allo stesso contratto dei metalmeccanici.
Tanto più appare singolare il credito che i confederali forniscono a Draghi e Brunetta, con l’enfasi posta sul “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale” dal momento che non si vedono né le linee di riforma della P.A. né le novità del contratto rispetto alle precedenti proposte del governo.
Un simile processo deve partire dalla delineazione dei caratteri ideali, politici e programmatici della nuova soggettività di sinistra. Non manca la forza delle idee, ma l’idea della forza.
Lo stato del mondo chiarisce che bisogna ripartire dall’uguaglianza, che non può essere intesa come uno stato di partenza (peraltro l’ascensore sociale non funziona da decenni) ma una condizione da difendere e costruire continuamente. Sapendo che questa ricerca non deve distruggere le differenze ma portarle a valore, come quelle di genere o culturali, sottraendole alla discriminazione.
Deve partire dalla libertà “di”, non solo da quella “da”, esaltando la creatività individuale e collettiva. Deve essere fondata su un moderno spirito internazionalista per sottrarre alla miseria e alla pandemia l’intera popolazione mondiale, sostenendo la lotta per una scelta di sopravvivenza e di luogo di vita, di cui i migranti siano i moderni protagonisti e non solo le vittime.