In una pagina mirabile, il gesuita Michel de Certeau ha ricordato che “la Chiesa è sempre tentata di contraddire ciò che afferma, di difendersi, di obbedire alla legge che esclude, di identificare la verità con ciò che essa ne dice, di censire i ‘buoni’ in base ai suoi membri visibili… La storia dimostra che la tentazione è reale… ma l’esperienza cristiana rifiuta radicalmente la riduzione alla legge del gruppo. Ciò si traduce in un movimento di superamento incessante. Potremmo dire che la Chiesa è una setta che non accetta mai di esserlo. È costantemente attratta fuori di sé da quegli ‘stranieri’ che le sottraggono i suoi beni, che prendono sempre di sorpresa le elaborazioni e le istituzioni faticosamente acquisite, e nei quali la fede vivente riconosce, poco a poco, il Ladro colui che viene”. Una Chiesa, insomma, sempre tentata di lasciare la profezia per essere una società chiusa di ortodossi: e però sempre provvidenzialmente “sconquassata” da “stranieri” (cioè non allineati, non omologati, non conformisti) che in un primo tempo avversa, per poi riconoscere in essi Dio stesso, che disse di sé: “Ecco, io vengo come un ladro” (Ap. 16, 15).
Don Lorenzo Milani, che avrebbe ora compiuto cento anni, è stato uno di quegli stranieri, di quei ladri: uno dei più grandi, dei più duri, dei più teneri. La sua storia è stata scritta una volta per tutte da Dostoevskij, alla fine dei Karamazov: quando Gesù torna sulla terra il Grande Inquisitore, cioè la Chiesa del potere, gli rimprovera di aver voluto la sciare gli uomini liberi, di averli amati quando avrebbe dovuto dominarli. È quello che la Chiesa rimprovera ad ogni profeta: troppo amore! Trattato in vita dalla gerarchia ecclesiastica come un eretico (lui che era invece scrupolosamente ortodosso da un punto di vista dogmatico, e attratto dai sacramenti in modo quasi mistico), Milani oggi viene celebrato con fiumi di retorica: e il rischio è che non si rammenti più che era uno straniero e un ladro, cioè un profeta incendiario. Nato ricco e colto, Lorenzo Milani segue nudo il Cristo nudo, nei suoi poveri, con due stelle polari: il Vangelo per primo, e la Costituzione per seconda. Egli consuma la sua vita per dare ai poveri quella parola, quella lingua, quella dignità che possano permettere loro di non essere più schiavi dei “padroni”: come chiamava, senza reticenze, i ricchi e gli imprenditori. “Ci ho messo venticinque anni a sortire dalla classe sociale che scrive e legge l’Espresso e Il Mondo scrive Non mi devo far ricattare nemmeno per un solo giorno. Mi devono snobbare, dire che sono un ingenuo e un demagogo, non mi devono onorare come uno di loro, perché non sono di loro”. Ascoltiamo lui, allora, quest’anno: rileggiamo i libri suoi (in realtà sempre libri collettivi, scritti con il suo popolo, con i suoi ragazzi) e quelli dei testimoni più stretti e fedeli (Michele Gesualdi, Adele Corradi). Capiremo che don Milani è solo dei suoi poveri, non dei potenti che sabato hanno invaso Barbiana: “Reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia patria, gli altri i miei stranieri”.
La statura politica del Priore di Barbiana è assodata da tempo. Diceva Tullio De Mauro: “Capiamo meglio oggi Gramsci grazie alla grande luce, alla grande protesta, alla forza intellettuale di penetrazione nelle cose sprigionata da don Milani”. E la sua più ardente eredità politica è racchiusa proprio nelle ultime parole che dice al suo Michele: la scuola non serve a “produrre una nuova classe dirigente, ma una massa cosciente”. Oggi, al tempo del ministero dell’Istruzione e del merito, la situazione è anche peggiore di quella che Milani combatteva. La scuola è stata messa al servizio dello stato delle cose, non del suo scardinamento. Serve a trasformare i ragazzi in capitale umano, in merce nel mercato del lavoro, in pezzi di ricambio per il mondo così com’è. Fa ancora parti eguali fra diseguali: e lo chiama ‘merito. Manda ancora via i malati, e cura i sani: ella chiama “selezione”. E la stessa democrazia è ormai a gravissimo rischio, tra astensionismo e ritorno del fascismo: Milani scrive che, in una classe, “ventotto apolitici più 3 fascisti eguale 31 fascisti”.
Non fosse morto prima, sarebbe stato condannato per apologia di reato: l’obiezione di coscienza, che difende con tutta la sua forza. Perché nell’età atomica, scrive, “non esiste piu una ‘guerra giusta’ ne per la Chiesa ne per la Costituzione”. Insegnava ai suoi ragazzi che “se un ufficiale dara loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura…. Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce, e cosi non riusciremo a salvare l’umanità. Non e un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l’umanità ci salveremo almeno l’anima”. Quanto ci manca, oggi: nell’Italia senz’anima che, celebrandolo, lo tradisce.
Tomaso Montanari
Pubblichiamo questo articolo del Rettore dell’Università per stranieri di Siena uscito sul Fatto Quotidiano del 29 maggio 2023.