o scenario della mistificazione: la bufala dei Lep
Il progetto di autonomia differenziata nasconde molte insidie, che travalicano anche il consolidamento e l’approfondimento delle diseguaglianze generate da una struttura istituzionale concepita per cristallizzare la struttura dei servizi collettivi secondo il criterio della spesa storica.
Il disegno di legge Calderoli afferma con chiarezza che la riforma sarà realizzata senza oneri aggiuntivi a carico dello Stato. Nello stesso testo si prevede la definizione dei livelli essenziali di prestazioni, seguendo peraltro il dettato costituzionale approvato nel 2001. Ma tale richiamo appare più un doveroso esercizio retorico di conformità, che non un traguardo da perseguire con determinazione per ridurre la forbice dei divari territoriali tra cittadini di una medesima Repubblica.
Le contraddizioni presenti nel testo della riforma Calderoli sono molteplici. Camilla Buzzacchi, Direttrice del Dipartimento di scienze economico-aziendali e diritto per l’economia della Università Bicocca di Milano, nella sua audizione alla Camera dei Deputati di qualche giorno fa, ha messo in evidenza che “nell’art. 9 l’affermazione che ‘dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica’ contraddice l’art. 4, dove si prevedono interventi finanziari di aggiustamento”.
Come clausola di salvaguardia poi si stabilisce che entro due anni dall’approvazione della legge si provvederà comunque all’avvio delle procedure per gli accordi tra Stato e Regioni che faranno richiesta di attivare almeno alcune delle tematiche oggetto della autonomia, applicando il criterio della ripartizione delle risorse secondo la spesa storica.
In fondo, il disegno di legge Calderoli pare puntare sulla inerzia nella attuazione del provvedimento per costruire un percorso di attuazione che prescinda dalle condizioni di comparabile eguaglianza tra i cittadini mediante i livelli essenziali delle prestazioni.
Va inoltre sottolineato che – per nove delle ventitré materie – non esiste neanche il vincolo della definizione dei livelli essenziali di prestazione, e non si tratta nemmeno di questioni irrilevanti, come ad esempio il commercio estero o la protezione civile, tanto per fare due esempi di questioni che hanno un impatto significativo sulla vita della nazione.
Insomma, tra riaffermazione dei principi costituzionali e pratica operativa proposta dalla riforma Calderoli c’è un abisso costruito mediante una abile tessitura composta di plurime mistificazioni nascoste nelle pieghe di una procedura che tende piuttosto a delineare un disegno di secessione.
Come ha affermato nella sua audizione alla Camera dei deputati Lorenzo Chieffi, professore ordinario di Diritto Pubblico e Costituzionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli: “dall’insieme delle disposizioni contenute nell’articolato progettuale emerge una scarsa padronanza con le più elementari regole di alfabetizzazione costituzionale”.
Il ridisegno dei poteri economici e le privatizzazioni
Finora si è discusso relativamente poco sugli effetti economici della autonomia differenziata, in termini di modelli di assetto proprietario che si delineerà nel rapporto tra Stato e mercato. L’orizzonte delle piccole Patrie è certamente in contraddizione con una architettura delle forze produttive che richiede una massa critica per generare economie di scala necessarie alla competitività.
Molto probabilmente dobbiamo immaginare che questa disgregazione regionale, attivata dalla riforma Calderoli, sia solo una fase di passaggio per poi riorganizzare il Nord in una macroregione. Del resto, questo indirizzo è stato proprio di recente anticipato dal governo con la costituzione della zona economica speciale (Zes) unica del Mezzogiorno, che apparentemente è in contraddizione con l’autonomia differenziata.
Le originarie otto Zes sono state unificate dentro un disegno che coinvolge l’intero Sud, sostanzialmente con l’idea che debba essere confermato il vecchio principio della economia assistita mediante parziale fiscalizzazione degli oneri sociali e crediti di imposta per gli investimenti.
Ma l’effetto più sotterraneo che è in gioco dentro la riforma della autonomia differenziata riguarda l’assetto proprietario dei servizi pubblici collettivi, vale a dire l’attacco definitivo allo Stato sociale. Negli anni Novanta del secolo passato si è realizzata una poderosa privatizzazione delle imprese pubbliche nella manifattura e nei servizi privati, mentre le aziende pubbliche dei servizi collettivi sono state trasformate in società per azioni, ed hanno avviato un tentativo di recupero di efficienza.
Inoltre, altri servizi pubblici, esterni alla logica del mercato, si sono avvicinati a questo modello organizzativo, con il percorso di aziendalizzazione che ha riguardato la sanità, e con la contaminazione della scuola e della istruzione rispetto alle esigenze del mondo della produzione.
Si sono verificati cambiamenti giganteschi, che in qualche modo sono ancora in corso. L’onda lunga della fine del ventesimo secolo sulla architettura del capitalismo non ha concluso di gettare la sua influenza, e per questo è indispensabile ragionare su come l’autonomia differenziata avrà impatto su tale processo di riorganizzazione dell’assetto proprietario della mano pubblica nelle sue diverse configurazioni.
Un predittore efficace di quello che potrà accadere è dato dalle scelte che le regioni hanno effettuato nei decenni passati sulla materia che da più tempo è stata affidata alla quasi totale responsabilità territoriale, vale a dire la sanità. Lo slittamento verso la gestione privatistica della sanità si è determinato sotto due aspetti.
Da un lato si è proceduto all’allargamento delle prestazioni erogate da strutture private convenzionate con l settore pubblico, alle quali sono state trasferite funzioni maggiormente remunerative che richiedono meno investimenti in macchinari e risorse umane.
Dall’altro si è proceduto alla massima politicizzazione delle strutture pubbliche, diventate produttrici di consenso per le classi dirigenti regionali, con sempre meno rispetto per le competenze professionali e delle esigenze dei cittadini. Il livello di servizio è andato progressivamente degradando per tempestività di intervento e densità territoriale dei presidi.
La conseguenza è stata un crescente livello di privatizzazione, lasciando alla sanità pubblica l’erogazione delle prestazioni più onerose dal punto di vista organizzativo in un circolo vizioso che continua a sfogliare i petali della margherita sempre nella stessa direzione.
Questo schema può essere applicato ad altri settori che riguardano l’offerta di servizi collettivi, come le attività di trasporto locale, da meno tempo trasferite alla responsabilità delle regioni. Finora hanno prevalso le tendenze conservatrici finalizzate al mantenimento dei monopoli pubblici locali, ma si cominciano a manifestare crepe in questo schema, soprattutto per la consistente riduzione delle risorse pubbliche disponibili per il finanziamento degli oneri di servizio per la erogazione dei servizi di pubblica utilità.
Lo svuotamento della missione pubblica di natura universalistica nella erogazione dei servizi collettivi appare uno dei grimaldelli attraverso i quali si completerà, con l’affermazione della autonomia differenziata, l’attacco allo Stato sociale e la mercantilizzazione delle prestazioni essenziali che caratterizzano i diritti di cittadinanza.
Insomma, siamo in presenza di una strisciante rivoluzione neoconservatrice di stampo localistico, che si richiama alla impostazione neoliberista iniziata negli anni Ottanta del secolo passato, e che tenderà, attraverso la privatizzazione dei servizi pubblici, ad accentuare le diseguaglianze tra i territori e tra i cittadini. Gli effetti riguarderanno i principali elementi che oggi assicurano il collante sociale fondamentale della nostra comunità: scuola, sanità, trasporti.
Il sistematico depotenziamento dello Stato sociale, iniziato da qualche decennio, appare consegnato al suo completamento definitivo attraverso l’architettura istituzionale di una autonomia differenziata che stimola ancora una volta i sentimenti dell’egoismo rispetto a quelli della solidarietà.
Ma non avremo un Paese solo meno solidale. Soprattutto picconeremo ulteriormente una struttura competitiva già danneggiata fortemente nel corso dell’ultimo mezzo secolo, sostanzialmente da quando le Regioni hanno cominciato ad occupare la scena istituzionale della Repubblica. Una analisi sulla possibile correlazione tra aumento dei poteri delle regioni e diminuzione della competitività nazionale andrebbe promossa, prima di assegnare a queste istituzioni una centralità ancora maggiore nel governo delle risorse collettive.