Il consiglio regionale della Campania ha approvato l’8 luglio due quesiti referendari sulla legge Calderoli (86/2024). Per la presentazione dovranno essere votati nell’identico testo da altre quattro regioni. Uno è per l’abrogazione totale, sul quale nulla quaestio. È uguale a quello presentato in Corte di Cassazione da un comitato di cui ho fatto parte anche io. Ben altra cosa, invece, è il quesito di abrogazione parziale. Ecco un’analisi in sei punti.
Il primo, per i non addetti ai lavori. Un quesito abrogativo parziale comporta la cancellazione (o “ritaglio”) di una o più parole in uno o più degli articoli o commi della legge. Le parole che restano danno un contenuto normativo diverso da quello originario.
Ma per la giurisprudenza della Corte costituzionale il “ritaglio” che nega radicalmente o capovolge l’impianto originario della norma è inammissibile per eccesso di manipolatività. Deve trattarsi di un “ritaglio” che si può definire correttivo. Il quesito parziale in più o meno larga misura dà ragione all’avversario politico che ha approvato la legge.
Il secondo. Perché si affiancano un quesito totalmente abrogativo e uno parziale? Nel caso specifico, per il rischio che la Corte costituzionale dichiari inammissibile il quesito di abrogazione totale. Si vorrebbe per tale ipotesi un paracadute per assicurare comunque un voto popolare sulla legge. Ma può convenire piuttosto correre il rischio dell’inammissibilità del quesito abrogativo totale. Cui prodest avere un voto popolare che cancella solo alcuni limitati profili della legge? E che quindi implicitamente la legittima per il resto?
Il terzo. Il quesito parziale approvato tocca soltanto alcune parole negli articoli 1 e 4, con un effetto che può essere riassunto nel condizionare l’operatività della legge alla “determinazione” dei livelli essenziali di prestazione. Si badi: determinazione, non finanziamento o concreta erogazione delle prestazioni. Basterà elencarli. Sappiamo tutti che per i LEP non ci sono e non ci saranno nel futuro prevedibile risorse per una effettiva riduzione dei divari territoriali e delle diseguaglianze. La sanità ci offre già l’esperienza di livelli essenziali (LEA) “determinati” e mai concretamente applicati.
Il quesito parziale approvato non tocca nella legge 86 nemmeno punti nodali come le commissioni paritetiche cui è affidata la gestione delle intese una volta stipulate, o ancora – ed è davvero stupefacente – la norma transitoria dell’art.11.1 che concede un vantaggio inaccettabile alle regioni firmatarie dei preaccordi del 2018. Viene il sospetto di un disegno occulto che scommette sulla dichiarazione di inammissibilità del quesito abrogativo totale per lasciare in campo un solo inutile parziale. Il referendum anche se vincente avrebbe alla fine il solo effetto concreto di legittimare col voto popolare la legge Calderoli. Chi potrebbe poi opporsi ancora, argomentando dalla frammentazione del paese e dall’aumento di divari e diseguaglianze?
Il quarto. Perché? Secondo i rumors è stata l’Emilia-Romagna a spingere, per il timore di pagare nella campagna elettorale incombente per la partenza di Bonaccini un prezzo alla destra, per il voltafaccia rispetto ai preaccordi del 2018. In tal caso, si capirebbe anche la difficoltà di intervenire da Roma, per il parallelo timore di vedersi addebitare una eventuale sconfitta. Sappiamo di scintille nella direzione PD, in cui l’on. Sarracino, responsabile per il Mezzogiorno, ha espresso la sua contrarietà sul punto del quesito parziale. Capiamo tutto. Ma è l’Emilia-Romagna che ha sbagliato, con Bonaccini a braccetto con i leghisti per anni. Non può essere il paese tutto a pagare. O forse quella regione vuole tenere la strada aperta per riprenderla appena possibile? Val la pena di ricordare che una volta presentato il quesito è necessaria l’unanimità dei richiedenti per ritirarlo. Se una regione insiste, il quesito rimane.
Il quinto. In conclusione, il quesito parziale approvato è la mossa di chi finge di voler bloccare Calderoli e in realtà gli spiana la strada. È un palese imbroglio (politico, s’intende). Prepariamoci all’Italia che torna ad essere espressione geografica. All’autonomia di Calderoli si aggiungono le pulsioni a scimmiottare le città-stato, con le proposte su Roma capitale, cui si è accodato Zaia per Venezia. E dove mettiamo Milano, capitale morale? Giorgia Meloni non ha capito o ha sottovalutato, per ignoranza o calcolo politico, il vaso di Pandora aperto sul suo tavolo dall’autonomia in mani leghiste. Altro che patria e nazione. Ma nei futuri turni elettorali ci sarà un prezzo da pagare per chi ha voluto, agevolato, tollerato o dissimulato l’appoggio. Siamo d’accordo che non si debba puntare a una guerra Nord-Sud. Ma deve essere anche chiaro che la coesione di un paese unito non può basarsi sulla presa in giro.
Il sesto. Una alternativa al quesito abrogativo totale sarebbe venuta solo da più quesiti parziali separati sui punti essenziali della legge. Ora si rafforza la necessità di ricorsi in via principale. Ma anche qui i segnali non sono incoraggianti. Pare che Campania e Toscana non intendano fare ricorso, perché il rischio di rigetto è troppo alto. Se fosse vero, vedremmo oggi un inedito rigore, di cui non si trova traccia nella pregressa conflittualità con lo Stato. Viene il dubbio che in questa specialissima occasione non si voglia scendere in campo.
Dice De Luca in consiglio: “Nessuno di noi ha voglia di fare crociate referendarie. Sediamoci intorno a un tavolo, costruiamo un filo di ragionamento e vediamo di ritrovare lo spirito risorgimentale”.
Dopo tutto, l’autonomia differenziata offre a chi governa una regione un guadagno di potere e di ruolo. C’è chi vuole mettere le mani sui beni culturali, chi sull’energia, chi sulle infrastrutture, chi sulla scuola e altro ancora. Se poi ad altri – alla destra – si può mandare il conto per aver aperto la via con l’autonomia differenziata, ancora meglio. Una fortuna che capita una volta nella vita.