La Corte costituzionale sbarra la strada al referendum sull’autonomia differenziata (Ad), dando invece disco verde ai referendum sociali promossi dalla Cgil e al referendum sulla cittadinanza. Non è una vittoria cinque a uno. Solo il fracasso mediatico su Trump copre la realtà di un brutto giorno, per il paese e per la stessa Consulta.
Perché per il paese? Basta guardare all’entusiasmo che sale a destra, specie nella Lega. Libero, giornale portavoce del leghismo, titola in prima pagina che è una giornata storica per il Nord. Toni analoghi nei giornali vicini alla maggioranza. “Basta panzane” proclama il ministro Calderoli dal Corriere della Sera. Oggi una partita si chiude con la sconfitta di chi si è battuto per l’Italia unita, con eguaglianza e diritti non dipendenti dal codice postale, e la vittoria di chi invece su diseguaglianze e divari territoriali ha investito e investe. E non c’è dubbio che tra i referendum la maggiore capacità di traino l’avesse proprio quello sull’Ad. Meloni è riuscita a lasciare il cerino in mano alla Corte costituzionale. Il governo – leggi Avvocatura di Stato – ha taciuto, per quel che vediamo, nell’udienza del 20 gennaio. Quindi non ha voluto assumersi il prezzo politico di negare ufficialmente al popolo sovrano il diritto di votare. Non ci stupisce ora la notizia che Palazzo Chigi esulti. Il lavoro l’ha fatto la Corte, che avrebbe dovuto meglio riflettere.
Infatti, la decisione di impedire il voto popolare indebolisce non poco la stessa sentenza 192/2024. Nella migliore delle ipotesi, la pronuncia richiederà una riscrittura del testo in sede parlamentare. Tra le opposizioni, non manca chi vede questa come un’occasione. Ma se fosse stato davvero agevole in Parlamento migliorare la legge Calderoli, ciò sarebbe già accaduto. Le opposizioni non hanno forza sufficiente, e ancor più ha pesato e pesa il baratto infame tra riforme subappaltate a singole componenti della maggioranza. La pressione della Lega all’interno della coalizione, già immediatamente ripartita, e le spinte per il ritorno al sindacato del Nord e alla questione settentrionale, rendono difficile pensare che si possa arrivare dopo la decisione della Corte a mediazioni più efficaci. L’avvicinarsi del voto popolare sarebbe stato il migliore incentivo – come l’esperienza ha nel tempo dimostrato – per un significativo ruolo del parlamento.
E il danno alla stessa Corte? Viene dalla fragilità degli argomenti a sostegno della inammissibilità. Leggiamo nello scarno comunicato che “l’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari”. Colpisce che ben più complessi e di difficile lettura risultino i quesiti invece ritenuti ammissibili. Ma qui incrociamo il peculiare concetto della chiarezza e omogeneità del quesito, che la stessa Corte ha elaborato come elemento necessario per l’ammissibilità, in quanto diversamente la scelta dell’elettore non è veramente libera. Un principio forse accettabile per un quesito parzialmente abrogativo, di cui può rimanere incerta la portata o la finalità. Ma applicabile anche a un quesito totalmente ed esclusivamente abrogativo? Esiste un quesito più chiaro e univoco di quello respinto? Una giurisprudenza che evidenzia tra l’altro un paradosso. La Corte vuole garantire la libertà di scelta dell’elettore, e non trova miglior modo di farlo se non alla fine negando con l’inammissibilità del quesito il suo diritto di votare. Un cittadino garantito suo malgrado? Può mai essere una buona giurisprudenza? Capiremo anche meglio – a sentenza pubblicata – il richiamo nel comunicato a un voto che avrebbe toccato l’art. 116.3, in luogo di una riforma costituzionale.
Sarà ora essenziale mantenere una pressione sulle forze politiche nelle sedi istituzionali, e far emergere la contrarietà a una frammentazione del paese che tra l’altro il mondo nuovo in cui oggi viviamo ci suggerisce fortemente di evitare. Sarà anche l’occasione per capire chi tra le opposizioni in realtà persegue compromessi improbabili o impossibili con la maggioranza, che mostra faglie sulle quali portare la battaglia politica. Non saranno i mediatori a tutti i costi – nemmeno se costituzionalisti – a tenere unito il paese. E chi si vuole opporre alla destra arrembante è bene non abbia paura del conflitto. Spiace, comunque, che la Corte non abbia percepito la necessità di una valutazione che andasse oltre gli argini almeno in parte opinabili posti nella sua giurisprudenza al referendum ex art. 75. Quello sull’Ad non è mai stato paragonabile ad altri, essendo cruciale in una strategia volta a forzare una riscrittura della Costituzione e della storia del paese. Questo era un momento giusto in cui chiamare il popolo sovrano al voto. Prima o poi ovviamente voterà. E implicitamente voterà anche su quel che la Consulta ha malamente deciso oggi.