Far scegliere ai cittadini i parlamentari è certamente l’antidoto alla deriva presidenzialista. Gian Giacomo Migone ha invitato a reagire alla crisi della democrazia (manifesto 11 aprile) facendo partecipare di più i cittadini. Non è un problema solo italiano, ma ricordiamo che nelle nostre elezioni regionali ha votato circa il 40% degli elettori. Pur non essendo l’unico parametro per misurare la qualità della democrazia, se la partecipazione al voto crolla la malattia è grave.
Nel mondo abbiamo assistito a preoccupanti, gravi sintomi della crisi democratica, pensiamo al 6 gennaio 2020 negli Stati Uniti, con imitatori in Brasile e altrove. Sono cresciuti a dismisura i poteri di concentrazioni economiche e finanziarie, con bilanci superiori a quelli di stati importanti, in grado di condizionare le politiche nazionali. Mentre il loro potere è forte, le istituzioni e i partiti sono deboli e in competizione per il potere.
Malgrado crisi come Lehman Brothers, le regole sono inadeguate a prevenire ripercussioni sull’economia e sull’occupazione. La democrazia, come possibilità/capacità delle sedi politiche di regolare finanza e capitali è regredita.
Anche le 27 Cop sull’ambiente che, nel tempo, hanno affrontato la crisi del clima, puntando su obiettivi e iniziative comuni, attualmente sono spiazzate dalla guerra in Ucraina, che ha relegato il clima in un ruolo secondario.
La democrazia, quando c’è, è nazionale, i poteri economici e finanziari sono internazionali e decidono anche per gli Stati. In passato c’erano sedi internazionali di concertazione delle politiche, discutibili, ma erano un anelito al governo mondiale dei problemi, pensiamo alle armi nucleari, come coronamento delle democrazie nazionali. E la crisi dell’Onu è iniziata quando le potenze mondiali hanno deciso unilateralmente su pace e guerra.
Le sedi internazionali vanno ricostruite per realizzare grandi obiettivi: pace, clima, lavoro, tali da coinvolgere le strutture politiche esistenti, senza rimanerne imbrigliate.
Ma per governare le relazioni internazionali c’è bisogno di organizzazioni politiche e sociali forti, con ideali, valori, in grado di coinvolgere le giovani generazioni. Per questo è necessario superare i partiti personali, attuare l’articolo 49 della Costituzione, costruire forme di partecipazione capaci di invertire la caduta di credibilità della politica.
In Italia viviamo una crisi preoccupante del parlamento: le leggi sono quasi tutte conversioni di decreti del governo, lavora una camera per volta mentre l’altra si adegua . Il punto è che per ridare forza e rappresentanza al perno della nostra democrazia, è indispensabile cambiare la legge elettorale perché i cittadini possano scegliere i loro rappresentanti. Non c’è migliore antidoto contro la deriva presidenzialista.
Ha ragione Migone: va tolta ai capi partito la nomina dall’alto dei parlamentari restituendo potere ai cittadini, con una legge elettorale coerente con la nostra Costituzione, cioè proporzionale. Un parlamento di nominati è evidentemente un organismo addomesticato perché la qualità preferita diventa l’ubbidienza al capo da cui la nomina dipende.
Con la legge in vigore la destra ha preso il 44% dei voti e con un premio di maggioranza, di fatto del 15 % , ha ottenuto il 59 % dei parlamentari, alterando i rapporti di forza. Oltretutto la democrazia non è solo partiti e governo ma anche confronto permanente con la società e con le sue organizzazioni. Naturalmente con questo parlamento è difficile raggiungere l’obiettivo di una nuova legge elettorale. La destra voleva arrivare al potere e si è unita per questo, ottenendo il premio di maggioranza.
Rinuncerebbe a questo vantaggio? Per competere l’opposizione dovrebbe unirsi ma sembra non riuscirci malgrado la sconfitta subita. E neppure riesce ad indicare una nuova legge elettorale.
Perché allora non approfondire le condizioni per portare elettrici ed elettori a decidere direttamente sulla legge elettorale? Far decidere ai cittadini sarebbe anche un’alternativa positiva al presidenzialismo. Forse questa è la via per uscire dal cul de sac in cui la democrazia italiana è finita.