La semplice parlamentarizzazione della crisi – un atto dovuto ma di questi tempi non scontato – ha bruscamente ridimensionato la figura politica di Salvini. La sua arrogante replica a Conte, più miserabile che misera, non poteva nascondere il vuoto di pensiero politico e strategico del ministro della malavita.
A questo risultato hanno contribuito le crescenti contestazioni popolari che hanno accompagnato il tour di Salvini man mano che scendeva lo Stivale. Eppure non è il caso di cantare vittoria.
NON SI DEVE ripetere l’errore di sottovalutare la capacità di un esasperato populismo di destra di trovare rapidamente consensi e numerosi. Ora tutto dipende dalle scelte e dal comportamento delle forze politiche che a Salvini si sono opposte. La strada del neofrontismo non è perseguibile, non solo perché essa non ha mai avuto fortuna in termini elettorali nel nostro paese, ma perché porta quasi inevitabilmente con sé la disattenzione rispetto ai contenuti, ovvero alle risposte da fornire a un paese in crisi quale il nostro.
L’IPOTESI avanzata da Prodi di un accordo “dettagliatissimo alla tedesca” (fra Cdu e Spd) non sta assieme con il paragone da lui stesso fatto con i modi e le forze con cui è stata designata Ursula von der Leyen a capo della Commissione europea. Infatti ad essa hanno contribuito anche gli Orban e i Kaczinski, alfieri del populismo europeo. Forse Prodi pensava più alle 200 e passa pagine del programma del suo secondo governo: meticolose sì, ma senza anima politica. E si è visto come è finita.
SE QUINDI si vuole evitare di dare corda ai tentativi salviniani di riscossa e al contempo elezioni anticipate a breve che servirebbero solo per un consolidamento delle destre, dai sondaggi ai voti reali, c’è bisogno di una soluzione di governo che abbia ambizioni di durare. Che sia di legislatura o meno è impossibile predirlo e quindi ha poco molto senso proclamarlo, ma che almeno non abbia incorporata la sua fine in un imminente ricorso alle urne fatto con la stessa disastrosa legge elettorale, che invece andrebbe resa proporzionale. Quindi la definizione di un programma essenziale è decisiva. Cioè un insieme di progetti di trasformazione e non un contratto, che è solo contemperanza di diversi interessi. E qui non siamo affatto messi bene.
Dalla scarna relazione di Zingaretti sono emersi cinque punti, unanimemente assunti dalla Direzione del Pd, talmente general-generici da rendere i contorni del mandato al segretario per trattare con i 5stelle del tutto indeterminati. Si passa da un piatto europeismo in perfetta continuità con la linea dominante nella Ue, al ribadimento della triade “minnitiana” – solidarietà, legalità, sicurezza – in tema di immigrazione. La questione dei porti aperti non può essere lasciata in mano alle iniziative seppur giuste e coraggiose della Magistratura.
SI RIVANGA il mantra della crescita economica, senza sottolineare la complessità del suo rapporto con la difesa ambientale e la lotta contro i cambiamenti climatici (di cui si è accorta persino l’equivalente statunitense della nostra Confindustria). Si vuole sterilizzare l’aumento dell’Iva, senza dire dove prendere le risorse.
QUESTIONE della massima urgenza visto che l’aumento dell’Iva provocherebbe un incremento di spesa media superiore ai 450 euro annui per famiglia e visto che l’argomento è tutt’altro che scontato, basta leggere cosa dice Tito Boeri a proposito di un incremento parziale e guidato dell’imposta indiretta.
In più i dati economici non favoriscono ottimismi. La locomotiva tedesca boccheggia. Se va avanti così la recessione tecnica in quel paese è sicura.
Le turbolenze della Brexit e soprattutto lo scontro commerciale innestato da Trump contro la Cina rendono il quadro ancora più fosco e non c’è spazio per furbizie contabili. Né d’altro canto si può sperare di ottenere risposte utili dai 5Stelle su queste tematiche.
COLPISCE il silenzio sull’autonomia differenziata delle regioni, in effetti avviata dal governo Gentiloni e voluta anche dall’Emilia e Romagna, oltre che dalle due regioni del nord a guida leghista. Se andasse in porto sarebbe la secessione dei ricchi. Su questo la sinistra di alternativa dovrebbe impostare una grande battaglia sociale e politica, ben fuori dalle aule accademiche o parlamentari.
LE FORZE della sinistra più che dichiararsi a scatola chiusa disponibili a sostenere o addirittura a partecipare a un eventuale governo 5stelle – Pd, su cui comunque avrebbero ben scarsa voce in capitolo, potrebbero invece finalmente avviare un processo costituente capace di evitare la diaspora individuale o il ritorno alle rispettive nicchie congressuali dopo l’infelice esito elettorale delle europee. E quindi rivolgersi in prima persona alle forze sociali e all’area dell’astensionismo. La sconfitta di Salvini, se ribadita, può anche favorire un innalzamento dello scontro politico e sociale: dalla indispensabile resistenza ai “pieni poteri” alla trasformazione della nostra società.