Sì certo, l’opposizione in piazza – “che è quello che sappiamo fare meglio” (Giorgetti dixit) – darà alla Lega e al suo capitano un lampo di visibilità dopo giorni di meste e modeste dirette Facebook contro ribaltonisti e traditori. Ma non sarà il flash-mob di lunedì prossimo contro il governo davanti a Montecitorio a risolvere il grosso guaio in cui s’è cacciato Salvini con la crisi da lui innescata in mezzo ad agosto. Le mancate elezioni e il Conte-bis, esito non voluto della crisi, costituiscono per la leadership della Lega un colpo durissimo.
Non c’è nessuna messa in stato d’accusa del leader, finora – anche perché Salvini è pur sempre quello che ha portato la Lega dal 4 al 34% e il partito è blindato - ma l’attività di fronda interna, seppur discreta, ha ripreso a muoversi e a farlo su un tema strategico per il Carroccio: la questione settentrionale, il nord. Il nord tradito da Salvini per inseguire il lepenismo all’italiana e un’idea di Lega nazionale e nazionalista. A vario titolo l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, l’ex ministro Roberto Maroni, i governatori di Veneto e Lombardia Luca Zaia e Fontana pensano senza dirlo quello che invece dice Gianni Fava, unico dissidente allo scoperto nella Lega, che al congresso del 2013 raccolse un modesto 13% ma che adesso rialza la testa e rivendica d’aver capito in anticipo dove avrebbe portato l’avventura del Capitano. “Il tempo passa e tutte le parabole prima o poi iniziano ad invertire la tendenza. Gli errori politici madornali di questi giorni hanno solo accelerato un processo che cominciava a maturare da tempo”.
Fava garantisce che “Il dissenso, seppur tacitato, rispetto alla linea politica aumenta a dismisura e a velocità impensabile fino a poche settimane fa”. Dissenso che si starebbe riorganizzando proprio sui temi dell’autonomia, del nord, della pressione fiscale, dell’impresa. Un patrimonio programmatico che Salvini – questa è l’accusa dei frondisti - si è giocato e ha perso alla roulette di Roma prima con l’alleanza con Di Maio e poi aprendo una crisi al buio, di nuovo scommettendo e perdendo sul voto anticipato. Resta indeterminato se, quando e come il dissenso interno alla Lega si organizzerà ma tra i leghisti in Parlamento cominciano a serpeggiare con più insistenza malumori e critiche a una leadership verticistica che ha imposto ai quadri del partito di seguire i diktat senza discutere senza mai convocare i centri decisionali del partito come il consiglio federale.
L’intendenza leghista ha seguito il capo senza fiatare fino a che l’onda del consenso è cresciuta e Salvini era alla guida del Viminale, premier in pectore nel governo gialloverde. Ma ora che la Lega è all’opposizione e che il leader del Carroccio è lontano dalle leve del potere comincia a circolare il timore – anche con un occhio ai sondaggi in calo – che possa cominciare un veloce riflusso. Sono molti, per dire, i deputati che hanno al bavero della giacca Alberto da Giussano, a non essere più così sicuri della vittoria alle regionali in Emilia Romagna e in Umbria e più avanti nelle Marche. Regioni del centro nord su cui la Lega era certa di calare vittoriosa per estendere il dominio verde sullo stivale.
L’alleanza di governo giallorossa infatti potrebbe essere la strada su cui anche a livello locale sinistra e Cinquestelle possano siglare intese di centrosinistra magari saldate con esperienze civiche in grado di esprimere candidature credibili e competitive. E considerando che l’elettorato moderato che si aspettava flat tax, minore pressione fiscale sulle imprese e più liberalizzazioni è rimasto a bocca asciutta il timore è giustificato. Nella paura di perdere quota e di regredire la tentazione è quella di tornare sul terreno sicuro del nord, il bene rifugio della Lega. Che a ben guardare è quello che hanno fatto i governatori di Veneto e Lombardia e lo stesso Giorgetti, che non solo ha ammesso che nella Lega non c’è democrazia interna – mascherando l’appunto come apprezzamento d’una leadership forte – ma che l’autonomia dopo tutto quanto è accaduto il nord la vede ormai lontana come in un cannocchiale rovesciato. Un punto su cui ieri Zaia ha rincarato la dose dicendo che “Sulle autonomie i governi non hanno scritto una riga”. Tutti i governi, compreso quello Conte-Salvini-Di Maio: “Mi riferisco anche ai 14 mesi del governo che è appena uscito di scena”.
Per questo con frasi ellittiche, con prudenze orientali – la paura dell’accusa di frazionismo è sempre molto alta - il cosiddetto cerchio magico tenta di suggerire a Salvini il ritorno alla questione settentrionale, peraltro largamente ignorata dal neogoverno giallorosso. Mentre in ambienti vicini al governatore veneto Luca Zaia sta montando addirittura l’idea che Salvini, in un’ottica di ricomposizione del centrodestra e di Lega di nuovo nordista, non dovrebbe essere il futuro candidato premier per la Lega.
Ma i problemi di Salvini sono anche al sud: secondo un sondaggio Swg durante la crisi di governo avrebbe bruciato dagli 8 ai 10 punti percentuali nelle regioni meridionali alienandosi un pezzo di elettorato che aveva votato il leader e non evidentemente un movimento ancora non radicato nelle regioni meridionali. E così al sud la Lega scende al 17% il doppio di quello che il Carroccio ha perso a livello nazionale.
Tutto dipenderà naturalmente dalla durata e dalla tenuta del nuovo governo, da quanto Salvini sarà costretto all’opposizione e da quali possibilità gli si daranno di uscire dall’angolo. Ma se la legislatura dura il rischio concreto di Salvini è logorarsi all’opposizione e sarà fatale l’emergere delle linee di faglia che già percorrono la Lega. I primi fuochi di rivolta sono già accesi.