Nello stesso giorno, Draghi è stato messo sotto accusa da Ankara per populismo e da Napoli per incoscienza. È certo una coincidenza, ma ritrovare sulla stessa frequenza polemica tanto Erdogan quanto De Luca fa uno strano effetto. In più, il governatore campano ha attaccato con uguale forza anche il presidente della Repubblica, arrivando a livelli di antagonismo istituzionale mai raggiunti prima. In sostanza, ieri De Luca ha rovesciato su Draghi e Mattarella tutto il peso di un rivendicazionismo sudista che raramente ha trovato una simile legittimazione politica. Saranno contenti i neoborbonici. Ma il Pd? Come può il partito di Letta tollerare tutto questo e accoglierlo come se nulla fosse? Come può farsi prendere dal mortificante paradosso di un De Luca senior che critica perfino il gruppo parlamentare al cui vertice è stato appena eletto, come vicepresidente, De Luca jr? E come può, Letta, chiamare Salvini alla responsabilità nazionale e al leale sostegno al governo Draghi, e allo stesso tempo ignorare il governatore della Campania appena salito sulle barricate? Il quale, proprio come Salvini, ora chiede di tutto e di più, come se non ci fosse un contesto emergenziale duro per tutti. De Luca vuole più vaccini, più operatori sanitari, più finanziamenti. Ma non chiarisce mai le sue contraddizioni.
Se la Campania è la regione del miracolo anti-Covid, come sempre gli sentiamo dire, non si capisce come mai drammatizzi fino all’ennesima potenza lo stato delle cose. Dice che la comunicazione del governo è «idiota e demenziale». E va bene. Ma non torna mai sui disastri che ha provocato la sua. «Non abbiamo ceduto alle caste», rivendica. Eppure, è pronto a vaccinare i giovani di Capri prima degli ultra-settantenni di Scampia e Ponticelli. Lo fa per salvaguardare il turismo, per riavviare il motore dell’economia regionale lì dove è più potente, spiega. Tuttavia, non gradì quando lo stesso concetto, su scala nazionale, lo tirò fuori a sorpresa, da Milano, Letizia Moratti. Evidentemente, il clima intorno a lui sta cambiando, e De Luca comincia ad avvertirlo. Non è un caso se negli ultimi tempi è passato dalle stelle alle sberle. Negli ultimi giorni, appunto, De Luca è stato citato molte volte e quasi sempre in negativo, per sottolinearne un deragliamento istituzionale o mediatico. Come non era mai successo, contro di lui, anche da parte di chi in passato lo aveva portato a modello, si è sollevato un coro di critiche, di prese di distanze, di inviti a rientrare nei ranghi. Perché? Perché prima, quando il virus era solo una ipotetica minaccia, dava conforto sapere che nel Palazzo c’era chi aveva armato il lanciafiamme contro i furbetti del lockdown.
Il conforto generava consenso. E questo una sorta di immunità totale. Da qui, anche, la noncuranza per le prime velate forme di aticofilia, di godimento per la sfortuna altrui, in particolare per quella lombarda; un atteggiamento che De Luca assumeva per accarezzare l’orgoglio locale, laddove avrebbero dovuto invece far scattare il ricordo di quando gli sfortunati, i contaminati e i terremotati erano dislocati al Sud. Ma dopo, quando questa fase è finita, quando ci si è resi conto che il bilancio della pandemia era ormai rosso per tutti e che non c’era una eccezionalità positiva da sbandierare, la vita reale si è liberata della sua falsa rappresentazione. De Luca è rimasto sul palco delle sue dirette Facebook, ma il pubblico si è trasformato in testimone. Ha smesso di essere il pubblico assorto nello spettacolo, sospeso nell’incredulità, disposto a confondere realtà e rappresentazione, ed è diventato un testimone consapevole di una politica sballata. Una politica che per esempio rinuncia alla razionalità di un assessore alla Sanità per affidarsi a una pletorica e inafferrabile Unità di crisi, come nota su questo giornale Ernesto Galli della Loggia. O che fa indispettire Draghi, e anche il collega Bonaccini, presidente uscente della Conferenza Stato-Regioni, per l’acquisto ipotizzato del vaccino russo.
Inoltre, non incanta più il fatto che la Campania — come ricorda il direttore d’Errico — ha un assetto di governo tutto suo. Più che presidenziale, bonapartista. Qui difettano i delegati, ma abbondano i consiglieri. E non c’è un assessore alla Cultura così come non c’è mai stato un assessore alla Sanità o ai Trasporti o ai Lavori pubblici per la semplice ragione che così, in questi ambiti, nessuno può entrare, uscire, avanzare o arretrare se l’input non viene dall’alto. Il punto, dunque, è tutto qui. È il tema di una politica che, per dirla con Biagio de Giovanni , si propone come «centro direzionale unico». O, per usare le parole di Sabino Cassese, qui ha come artefice un presidente di Regione che crede di essere «un Re Sole o un imperatore austro-ungarico».