Il momento è ora. Se il Movimento 5 Stelle vuole sperare di avere un qualsiasi futuro, deve uscire dal governo sul Tav. Il presidente del Consiglio non è riuscito a invocare una sola ragione tecnica che ribalterebbe la famosa analisi costi-benefici. Ha invocato vaghe decisioni dell’Europa (prima ancora che la nuova Commissione decida), ha prospettato “costi” del recesso non precisati e non dimostrati: ha solo fatto sua la solita fumisteria di chiamparini e madamine.
Conte ha fatto dunque una scelta politica: arrivati alla resa dei conti, il garante del patto di governo ha scelto uno dei due contraenti. Non quello che l’ha portato a Palazzo Chigi: ma il più forte. E ha scelto l’arma-fine-di-mondo: perché restare in un governo che fa il Tav significa, per i 5 Stelle, il suicidio.
E c’è di peggio: presentarsi non più come l’avvocato difensore dei cittadini, ma come l’avvocato d’affari del Tav significa schierarsi non solo con la Lega, ma con il sistema di cui la Lega è parte. Con il Pd, con Confidustria e (ahimé) con i sindacati: con il presidente della Repubblica e con tutti i garanti dello stato delle cose.
Perché i 5 stelle dovrebbero rimanere al governo? L’unica ragione nobile sarebbe la quasi certezza che votare ora significherebbe consegnare il Paese a Salvini. Con questa legge elettorale – superando il 40% dei voti, ad elezioni che avrebbero un’astensione record – qualcosa come un quarto degli aventi diritti al voto potrebbe esprimere parlamentari sufficienti a eleggere il Presidente della Repubblica e a cambiare la Costituzione. Ma se l’unico modo di fermare Salvini è trasformare il governo Conte in un governo Salvini, allora conviene rompere ora.
Perché andando avanti così l’esito sarà lo stesso, con l’aggravante di un Movimento 5 Stelle letteralmente disintegrato. Al contrario, se il Movimento rialzasse la bandiera dei suoi valori fondanti, a partire dall’ambiente, uscisse dal governo sul Tav (ma anche sulla corruzione dilagante nella Lega; sulla sudditanza di Salvini alla Russia di Putin; su un’autonomia differenziata che ha l’unico scopo di fottere definitivamente il Mezzogiorno) e cambiasse il leader (perché Di Maio ha credibilità zero) potrebbe ancora giocarsi la partita.
A suo favore gioca ancora la totale assenza di alternative: alle Europee Salvini si è preso i voti di destra del Movimento, ma sono invece finiti nell’astensione i milioni di voti di tutti coloro che vorrebbero davvero cambiare il sistema.
Sono tra coloro che, da sinistra, aveva provato a credere che il Movimento avrebbe potuto giocare un ruolo nello scardinamento dello stato delle cose. Non ho mai accettato le cariche che mi hanno proposto, e non ho mai fatto dichiarazioni di voto a loro favore (se non per la Raggi a Roma: e, in quella situazione, la rifarei mille volte). Ma trovandomeli accanto in mille battaglie per l’acqua, l’ambiente, i beni comuni avevo sperato che potessero giovare. Una speranza ingenua: della quale tuttavia non mi pento, anche solo perché – in attesa delle condizioni, ancora assai lontane, della ricostruzione di una qualche sinistra politica – non c’era altro in cui sperare. Anche oggi – diciamolo chiaro – l’alternativa è l’astensione.
Ma la sudditanza (e l’esplicita complicità, a tratti disgustosa) alla politica di estrema destra di Salvini sui diritti umani, un reddito di cittadinanza lontanissimo da quello che avevano proposto prima di essere al governo (e realizzato all’insegna del ‘sorvegliare e punire’), la ripresa della svendita del patrimonio pubblico, una riforma costituzionale che piccona ulteriormente il ruolo del Parlamento, e in generale una velocissima trasformazione in casta di potere (con mandato, e competenza, zero) hanno distrutto quella speranza.
Restava solo la casamatta del Tav, che non investe solo il destino della Val di Susa ma l’idea stessa di democrazia: subire il tradimento di Conte sarebbe la fine del Movimento, respingerlo è l’ultima occasione di una palingenesi. Che non sarebbe facile, ma sempre meglio di una fine vergognosa.