Ecco perché la secessione dei ricchi non s’ha da fare. Il referendum resta in piedi, non fermiamoci

di Carlo Di Marco - strisciarossa.it - 12/12/2024
La mobilitazione creata da un’infinità di forme associative di base, l’evolversi positivo e incoraggiante di importanti contraddizioni all’interno di alcuni partiti della sinistra, nonché la presenza assidua e attenta delle migliori intelligenze costituzionaliste, devono renderci fiduciosi.

È difficile sintetizzare in poco spazio quello che ha detto la Corte costituzionale sulla legge Calderoli in quasi cento pagine, ma la portata storica della pronuncia richiede uno sforzo dedicato a quanti vorrebbero capire di più. Proveremo a farlo.

Si è tentato di sminuire per prima proprio questa portata storica della sentenza da quanti erano e restano interessati a confondere le idee: “niente di particolare, metteremo qualcosa a posto in Parlamento e andremo avanti…”. Era questo il senso dei primi commenti successivi al comunicato stampa della Corte che preannunciava l’uscita della sentenza, da parte di chi si è inventato lo scempio della cosiddetta autonomia differenziata. Ora che la sentenza è stata pubblicata, l’atteggiamento del Governo e dei suoi resta ancora questo, ma a noi invece arrivano riflessioni, argomentazioni, ricostruzioni giuridiche e studi. Tutto materiale prezioso che conferma l’impressione iniziale: la Corte ha smontato e fatto a pezzi il progetto secessionista della lega. Mi piace citare un’espressione bellissima di Vincenzo Tonti delle Mura in una recente intervista, secondo cui questa sentenza “restituisce il regionalismo all’unità del Paese”. Questo significa tante cose.

In difesa del regionalismo solidale e cooperativistico

La Corte parte proprio dai principi incomprimibili e irrinunciabili di eguaglianza e di unità della Repubblica (artt. 2, 3, 5 Cost.). l’art. 5, in particolare, riguarda uno dei pilastri della forma di Stato: il regionalismo solidale e cooperativistico. Questo regionalismo – originalissimo, del quale tutta la scienza giuspubblicistica italiana del secondo dopoguerra andava fiera – si collega alle persone, al popolo che troviamo protagonista in tutta la Carta costituzionale, ma in particolare negli articoli 2 e 3, poiché (come dice la Corte nella sua sentenza) “l’unità e indivisibilità della Repubblica si fondano sul riconoscimento dell’unità del popolo, a cui l’art. 1 […] attribuisce la titolarità della sovranità”. Vi sono, insomma, una sola Nazione e un solo Popolo; quindi, una sola rappresentanza politica nazionale per la cura delle esigenze unitarie, affidata al Parlamento nazionale.

Il pluralismo regionale, tuttavia, genera “concorrenza e differenza tra regioni e territori, che può anche giovare a innalzare la qualità delle prestazioni pubbliche”, ma non potrebbe mai minare la solidarietà tra Stato e regioni e tra regioni; neanche l’unità della Repubblica, l’eguaglianza dei cittadini, la garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti, la coesione sociale ecc. Da quanto detto, discende che il nostro regionalismo è di tipo cooperativistico/solidaristico e non mette le regioni fra loro in una competizione dualistica. Inoltre – qui si arriva ad un punto nodale delle argomentazioni del giudice delle leggi – il quadro delle relazioni istituzionali fra Stato regioni ed enti locali è completato dal principio di sussidiarietà che pretende chiarezza sulla distinzione fra funzioni e materie. La sussidiarietà è animata dal principio di adeguatezza che non riguarda intere materie, bensì specifiche funzioni, quindi, in riferimento all’art. 116.3 Cost, la possibile devoluzione – dice la Corte – ha riguardo non alle “materie ma [alle] singole funzioni concernenti le materie”. È un po’ disarmante: la distinzione fra materie e funzioni è di scuola, si impara nelle prime lezioni di diritto pubblico, ma non sembra essere il forte di chi oggi governa questo Paese e la Corte ha dovuto ricordarlo. Che giovi, ma è del tutto chiaro che così la Corte smonta il castello incantato delle ventitré materie così tanto desiderate da Zaia, Fontana, Calderoli e compagnia bella.

Le norme generali sull’istruzione non è materia devolvibile alle regioni. L’elemento che caratterizza tale materia dice la Corte, è la “valenza necessariamente generale ed unitaria […] dei contenuti che le sono propri; tali norme generali, stabilite dal legislatore statale, delineano le basi del sistema nazionale di istruzione [per] una offerta formativa sostanzialmente uniforme sull’intero territorio […] stante l’intima connessione di questi aspetti con il mantenimento dell’identità nazionale”.

Le intese, secondo la Corte non sono accordi fra regioni e Governo a cui il Parlamento deve limitarsi a dare un semplice parere alla fine del percorso gestito essenzialmente dal Presidente del Consiglio dei ministri. Esso dovrà invece avere, come è logico in un sistema parlamentare, il potere emendativo e di controllo. Peraltro, le intese non sono semplici accordi poiché anche da un punto di vista procedimentale, devono essere “precedute da un’istruttoria approfondita, suffragata da analisi basate su metodologie condivise, trasparenti e possibilmente validate dal punto di vista scientifico”. La Corte in questo passaggio nodale della sua alta elaborazione (come in diversi altri punti) raccoglie espressamente il suggerimento della Banca d’Italia, riferendosi alla memoria da essa depositata il 27 marzo 2024 nel corso dell’audizione davanti alla prima Commissione della Camera dei deputati.

Particolarmente incisivo è il giudizio sull’art. 3 della legge Calderoli, quello che riguarda la definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni. Questo articolo, come è noto, avrebbe voluto conferire sostanzialmente al Governo il compito di definire i LEP che la Costituzione affida espressamente al Parlamento.  È particolarmente grave che, nonostante la Corte abbia dichiarato l’incostituzionalità della norma istitutiva della Commissione sui LEP (Commissione Cassese), il Governo voglia prorogarne i termini in scadenza il 31 dicembre prossimo, mediante un articolo del Milleproroghe, al momento ancora fantasma (l’art. 16 è solo intitolato, ma ancora in bianco al momento in cui scriviamo), ma ci torneremo. Così come torneremo senz’altro e prestissimo sugli atti di questa Commissione che, in barba a tutto, sembra decisa ad andare avanti in una funzione che non ha più presupposti di legge.

In conclusione, il primo passo del Parlamento dopo la sentenza 192/2024, secondo il Governo, dovrebbe essere compiuto proprio per negarla, mentre la Corte chiede al Parlamento di riacquisire centralità in una materia così delicata per gli equilibri costituzionali.

 Il Parlamento che non decide resterà al palo

Se ci fosse nell’accordo di maggioranza una vera intenzione di tradurre in norma positiva la devoluzione indicata con molta chiarezza dalla Corte con una limpida interpretazione del dettato costituzionale, bisognerebbe riscrivere tutte le parti dichiarate incostituzionali. Non si tratterebbe di “aggiustamenti perfettamente applicabili” come sostiene il Presidente della prima Commissione del Senato in una intervista, bensì di una rinuncia a quella secessione dei ricchi tanto desiderata, in primis, dalla Lega e dai suoi generali. Sarebbe rinunciare a una delle tre colonne che reggono il castello dell’accordo di governo: devoluzione secessionista-premierato-separazione delle carriere dei magistrati; sarebbe, peraltro, una penosa ammissione di sconfitta in una battaglia dove vincono la mobilitazione in difesa della Costituzione e l’accorta vigilanza degli organi di garanzia.

Non solo non esiste quella volontà positiva, ma si ribadisce l’accordo di governo perché, da un lato, come detto, si vuole perpetuare la Commissione Cassese, dall’altro, non si pone alcun argine alle trattative in corso fra alcune regioni sulla devoluzione delle materie cosiddette non LEP. In questo contesto, il Parlamento non sembra avere forza e volontà di accogliere l’invito della Corte a riacquistare centralità. Centrali, invece, sono i numeri derivanti da un meccanismo elettorale antidemocratico che pone questo Parlamento a disposizione della volontà politica della maggioranza di Governo.

 Il referendum resta valido, la mobilitazione deve proseguire

Per vari motivi, ci sono buone speranze che resti integro l’obiettivo del referendum abrogativo totale della legge Calderoli. In primo luogo, va ribadito che i giudizi sulla richiesta di referendum abrogativo saranno due: il primo da parte della Corte di Cassazione sulla regolarità della richiesta; in caso di esito positivo, il secondo giudizio sarà della Corte costituzionale sull’ammissibilità del referendum ai sensi dell’art. 75.2 Cost.

Per il primo, la legge Calderoli di cui si chiede l’abrogazione totale (e anche parziale: i quesiti sono due), esiste: il giudizio della Corte non ha avuto un effetto abrogativo neanche in parte. Per maggiore chiarezza, le sentenze della Corte costituzionale, pur se accolgono le eccezioni di incostituzionalità avanzate, non hanno effetti abrogativi ma rendono inefficaci le leggi (o parti di esse) una volta dichiarate incostituzionali. Cioè, esse non possono essere più applicate, ma restano nell’ordinamento giuridico fino a quando il legislatore non legifera di nuovo. Nel nostro caso, pertanto, la legge Calderoli è stata in parte resa inefficace, ma c’è. Ebbene, il quesito referendario giacente dinanzi alla Cassazione ne chiede l’abrogazione totale (cioè l’espunzione dall’ordinamento giuridico). Vero è che il Giudice delle leggi ha accolto quattordici motivi di incostituzionalità e non tutti, ma il quesito chiede l’abrogazione totale e la Cassazione si pronuncerà entro il 15 dicembre prossimo. L’Ufficio centrale presso la Cassazione, tuttavia, è già intervenuto con ordinanza il 2 dicembre scorso per unificare due quesiti identici, ma lo ha fatto prima della sentenza 192/2024 della Corte costituzionale. Ora, dato che una richiesta referendaria si può fare sul diritto vigente, dopo la sentenza della Corte che è successiva, la Cassazione dovrà tornarci nei termini che abbiamo detto. Come si sa, i quesiti sono due: uno per l’abrogazione parziale della legge, l’altro per l’abrogazione totale. A me pare che qualche dubbio possa esserci per il primo, mentre resta per intero il quesito relativo all’abrogazione totale.

Quanto al giudizio di ammissibilità, gli unici argomenti di rilievo potrebbero essere due: 1) -la legge Calderoli sarebbe una legge costituzionalmente necessaria; 2) -essa, in quanto collegata alla finanziaria, rientrerebbe fra quelle per le quali il referendum abrogativo è inammissibile ai sensi dell’art. 75.2 Cost. Per il primo argomento, la dottrina ha avuto modo di approfondire e la maggior parte degli studiosi osserva che le previsioni di cui all’art. 116.3 Cost. non verrebbero meno senza la legge Calderoli; per il secondo, addirittura, la Corte costituzionale nella Sent. 192/2024 ha evidenziato la contraddittorietà fra la dichiarazione di invarianza finanziaria e la definizione dei LEP che comportano necessariamente nuove previsioni di spesa. Ora non resta che attendere.

Oramai i tempi sono stretti e piuttosto presto si verrà a capo di questa incredibile e intricata matassa creata dal vento di una destra incalzante. La mobilitazione creata da un’infinità di forme associative di base, l’evolversi positivo e incoraggiante di importanti contraddizioni all’interno di alcuni partiti della sinistra, nonché la presenza assidua e attenta delle migliori intelligenze costituzionaliste, devono renderci fiduciosi.

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17 dicembre 2024
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