Sono trascorse poche ore dal termine delle elezioni regionali in Emilia Romagna e una leggera ed euforica sensazione di liberazione fa velo ancora ad un’analisi più meditata su tutto quel che è successo in questi infuocati otto mesi dalle precedenti elezioni europee.
Era il 26 maggio 2019 e la Lega di Salvini riceveva la certificazione di essere il primo partito in Italia e anche in Emilia Romagna, cosicché partiva l’otto agosto, dalle sabbie del Papeete, l’offensiva culminata nella crisi di governo del Governo Conte uno ed il passaggio della Lega all’opposizione.
Da qui muove la strategia del “Capitano” di sferrare la controffensiva, concentrando il focus dello scontro in Emilia Romagna, eletta a preda simbolica della conquista finale del potere assoluto, con la capitolazione dei suoi avversari e la caduta dell’odiato governo Conte due, nato nel frattempo dall’alleanza PD_M5S-LEU.
Salvini si trasferisce in pianta stabile in Emilia Romagna e comincia a girare ogni luogo, dove siano radunati residenti, preferibilmente in sagre e piazze, in cui fare sfoggio della sua empatica bulimia narcisistica, concedendosi ai selfie di masse di cittadini ansiosi di entrare nell’occhio del prossimo signore di Emilia e di Romagna.
La campagna elettorale permanente del capo della lega, abbondantemente sostenuta da tutto il sistema dei media main stream prostrati dinnanzi a “sua Gaudenza”, fanno dello scontro in regione una impari lotta tra un Presidente di regione uscente, convinto di tenere lo scontro entro i limiti della sua buona rendita di posizione ed il rullo compressore della “bestia” e del suo Padrone incamminati verso un’inesorabile ennesima e finale vittoria. Anche perché nel frattempo la fragilità del governo a sua volta sottoposti ad attacchi furibondi e sistemici dallo stesso sistema mediatico, metteva a dura prova soprattutto la guida di Di Maio costretto poi alla fine alle dimissioni.
Tutta questa trama cinematografica di un film già in parte girato, subisce il 14 novembre una brusca virata. Gliela danno quattro ragazzi che improvvisatisi sardine, riempiono in una sera piazza Maggiore a Bologna di oltre diecimila cittadini, pronti a partecipare da protagonisti ad un’altra storia, quella della riscossa democratica.
Tutto cambia, clima, protagonisti, toni, audience della campagna elettorale: li dove il giullare meneghino sembrava incamminarsi con la sua ciondolo-candidata appesa al taschino, ad una vittoria elettorale annunciata, così recitavano i sondaggi ed anche i seri studi dell’istituto Cattaneo [*] che evidenziava in un testa a testa preannunciato una probabilità di vittoria della lega sul quoziente d’incerti del 15% , comincia una campagna elettorale del tutto diversa, quella vera, in cui la coalizione intorno a Bonaccini, comincia a manifestarsi e lo stesso presidente uscente, rincuorato dal cresente consenso alle manifestazioni ed alle riuscite comparse mediatiche delle giovani sardine, modifica il tono e i contenuti della sua campagna che assume anch’essa, pur restando nell’inquadramento dei binari fissati, un’intensità politica e comunicativa del tutto diversa.
Evidente che lo scenario politico era del tutto cambiato: prima c’erano due contendenti di cui una usava la clava di una campagna mediatica di dimensioni nazionali, sostenuta da un leader armato di potenti mezzi e abilità comunicativa incontrastata, dopo a fianco dell’altro contendente è sceso un soggetto le sardine con equivalente se non superiore capacità di evocare una reazione di valori opposti e condivisi da una massa crescente di cittadini in tutto il Paese. Cosicchè mentre la campagna di Salvini s’incattiviva, infangandosi nelle nefande menzogne su Bibbiano e poi sull’improvvida operazione del Pilastro, chiudendosi nei meandri di una visione localistica truce e asfitticamente catastrofistica, quella di Bonaccini cresceva di qualità e di apprezzamento nel comunicare con ton diversi da prima i dati salienti della realtà regionale e le sue stesse proposte di cambiamenti.
E’ così che l’andamento della sfida si gioca sulla diversa credibilità dei due candidati e sulla preoccupazione dell’elettorato di affidare la regione in mani insicure ed infide. Si dice che sia stato un voto di conservazione e non di cambiamento. In parte è vero ma è altrettanto vero che Bonaccini non può avocarsi il merito esclusivo del risultato positivo al quale ha ovviamente personalmente contribuito in misura rilevante, ma senza l’attivarsi di un ampio arco di forze che ha messo in gioco valori e aspettative molto più ampie, il risultato sarebbe stato un altro.
Ecco perché questa vittoria è emblematicamente rappresentativa dell’esigenza delle forze di sinistra di compiere una decisa e profonda revisione della propria identità e fisionomia per far si che quella emiliano romagnola non sia solo l’annuncio di una falsa primavera, le conseguenze sarebbero terribili.