Chi vi scrive vive a sinistra, da sempre. Orfano di un riferimento politico/partitico, da sempre. Perché la sinistra italiana si è smarrita, qualche anno dopo la svolta della Bolognina. Da una parte, c’è chi ha gradualmente spostato l’asse verso il centro e verso l’adattamento al sistema neoliberista che, tra crisi, discriminazioni e ingiustizie, governa il mondo, dall’altra, c’è chi invece, pur rimanendo coerente e saldo sul campo della lotta per i diritti, ha finito per arrotolarsi su un terreno di isolamento. Un terreno, quest’ultimo, nel quale lo spazio per la critica politica è stato ed è continuamente umiliato da protagonismi, scissioni risibili, moralismi da regime cinese, tradimenti di leader che, nel momento in cui potevano costruire un’alternativa inizialmente minoritaria ma potenzialmente importante, hanno scelto di rinchiudersi dentro le convenienze di una comoda connivenza con quel “centrismo” di sinistra che, fino al giorno prima, avevano disdegnato. Ma questa è solo la prima parte della storia.
La seconda è perfino peggiore. Il PD, sin dalla sua nascita, si è presentato come un partito annacquato, senza una precisa identità, che poi, pian piano, a colpi di Renzi, Minniti, Gentiloni e Letta, si è spostato sempre più apertamente verso uno scorbutico conservatorismo destrorso, a volte moderato da qualche apertura sui diritti civili, ma molto più spesso aggressivo, spietato e ipocrita sul piano dei diritti umani, della tutela dell’ambiente, dei diritti del lavoro. Un percorso che ha conosciuto un momento di finta gloria solo quando il partito guidato allora da Renzi guadagnò un 40% di consensi alle europee, risultato ostentato in ogni dove e depurato dalla verità, ossia che al voto erano andati il 57% degli italiani e che buona parte dei votanti del PD non era di sinistra. Su questa falsa confusione tra la maggioranza del Paese e la maggioranza dei votanti, l’ex sindaco di Firenze e la classe dirigente del PD hanno forzato la mano, fino a schiantarsi. Ma il peggio è arrivato nell’ultima fase della storia.
Letta, insieme alla stantia lotta delle correnti che da sempre anima il PD, ha disintegrato l’esperienza di questo partito senza identità, più sensibile ai grossi gruppi bancari e industriali che a tutti gli altri mondi che reclamano diritti reali e che sono espressione di settori della società realmente in sofferenza, sottoposti a discriminazioni ed emarginazione. Sia chiaro, non parliamo di sottoproletariato, che non è mai stato un riferimento della sinistra, ma della classe lavoratrice, che oggi è molto più composita di quella operaia e che comprende anche la vecchia classe media, i giovani qualificati e disoccupati, i precari, i lavoratori di settori nei quali persino la tutela sindacale è assente o debole o colpevolmente in ritardo. Il crollo verticale alle ultime elezioni, venute dopo il sostegno ottuso al governo Draghi e la condivisione dell’esperienza governativa con forze di centrodestra, ha spalancato le porte del Paese alla destra peggiore, rappresentata da Giorgia Meloni e dalla sua accolita di nostalgici e di incompetenti. Perché, fatta eccezione per qualche ministro, certe “designazioni” appaiono piuttosto grottesche.
Davanti al consenso sempre più crescente della destra, il PD è rimasto al palo, fermo, incapace di reagire in maniera diversa dalla solita bagarre tra personaggi, aspiranti leader, correnti varie. In quel di dicembre, finalmente, arriva qualche input dall’encefalogramma quasi piatto di un partito divenuto ormai oggetto di scherno e battute di ogni sorta. Battute facili, quasi scontate, a volte perfino ingenerose. La colpa però non è dei comici, ma di una classe dirigente che dovrebbe guardarsi dentro e riconoscere gli innumerevoli errori, i tradimenti perpetrati al popolo della sinistra, che è quello che più numerosamente è stato snobbato o abbandonato negli anni. Davanti allo sfacelo c’è chi continua a non rendersi conto, volgendo ancora lo sguardo verso quell’area centrista e neoliberista che ha di fatto messo il macigno sul collo della storia di questo partito. Allo stesso tempo, c’è un mondo più a sinistra che non sta tanto meglio. Non riesce a ragionare e scivola spesso su atteggiamenti anacronistici e lontani dalla tradizione e dalla storia nobile di questa area politica.
All’esterno del PD, infatti, c’è chi è rimasto incastrato in gabbie ideologiche, chi propone soluzioni vecchie a problemi nuovi, chi affronta il divario tra le classi sociali con strumenti lontani dalla fisionomia dei loro attuali confini, e c’è chi, autonominandosi esempio morale irraggiungibile, si è smarrito dentro una visione giustizialista che è lontana dal garantismo tipico della sinistra degli anni d’oro. In questo scenario paludoso, dicevamo, è arrivato un input: l’annuncio di Elly Schlein di candidarsi come segretaria del partito. Elly Schlein, che nel PD è stata eletta deputata, da indipendente, dopo essere stata eurodeputata con Possibile e, successivamente, vicepresidente della Regione Emilia Romagna, lancia la sfida a Bonaccini e agli altri candidati. Lo fa con un intervento nel quale il concetto più ricorrente è quello dell’identità da costruire, che sia precisa, nuova, stabile, capace di garantire il pluralismo e il superamento delle correnti, attraverso un’onda che possa sintetizzare le diversità e far emergere le visioni comuni.
Un impegno gravoso, un tentativo, che appare disperato, di riportare in vita un partito che sembra dilaniato, a tratti agonizzante, nonostante alcune nuove figure (si pensi ad Antonio Nicita) che si sono affacciate e che sembrano portare un po’ di chiarezza su alcuni ambiti, come ad esempio il posizionamento nella questione migranti. Figure che al momento sono però isolate e che avrebbero bisogno di riferimenti nuovi, anche se questo non basterebbe comunque. Perché al netto di tutte le idiozie e le volgarità di certi gruppetti della cosiddetta “sinistra radicale” (termine che peraltro non vuol dire nulla) sulle origini della Schlein, sulla sua famiglia altolocata (siamo ancora fermi a questo?), ignorando i suoi percorsi di studio e anche le sue battaglie in Europa, il punto da discutere in realtà è un altro. Vale a dire la capacità del PD di aprirsi davvero e di procedere a un cambio di direzione netto, depurando il partito da posizioni imbarazzanti su molti temi. A partire dalla autonomia differenziata, una vergogna della quale Bonaccini, anima del PD che tanto somiglia a Renzi per visione politica, è un convinto sostenitore.
Ma questo è solo un pezzo del problema, perché la cosa più importante sarà riuscire ad aprire il partito senza far trovare all’ingresso scelte precompilate. E soprattutto bisognerà lavorare seriamente sull’identità prima che sui nomi, evitando di ripetere l’ennesima sceneggiata, l’ennesimo tentativo di restyling che poi si sgretola miseramente davanti alle posizioni politiche, alle scelte, al rapporto con il Paese reale. Quel Paese che Giorgia Meloni sta mettendo in ridicolo e in pericolo, con infantili litigi con l’Europa, con posizioni vecchie e idee ancora più vecchie, con misure che rischiano di far lievitare l’evasione fiscale, con provvedimenti antisociali e discriminatori, dichiarando guerra ai poveri, pensando di rimediare ai tagli concreti con la promessa di future misure, al momento solo fittizie.
Davanti a tutto questo il PD, e in generale sinistra e centrosinistra, devono avere il coraggio di riformare se stessi e di tornare in piazza, di schierarsi contrapponendo visioni limpide e alternative alla destra, evitando di agitare ancora il vessillo dell’agenda Draghi. Bisogna tornare a parlare con il mondo del lavoro (tutto) e con i sindacati, almeno con quei pochi che ancora hanno a cuore i diritti, bisogna proporre soluzioni, avvicinarsi a tutti quegli universi, anche intellettuali, che sono rimasti esclusi e inascoltati per anni. Per farlo non c’è bisogno solo di un o una leader, ma di un’idea collettiva, coinvolgente e credibile. Altrimenti si muore e, attenzione, si muore tutti insieme.