Mentre i manganelli della polizia si incaricavano di inculcare il concetto di merito nelle teste degli studenti della Sapienza, alla Camera si celebrava la sconfessione, l’abiura, il rovesciamento della Costituzione antifascista. Con linguaggio biblico si potrebbe dire che abbiamo visto l’abominio della desolazione stare là dove non deve stare. Difficile darsi pace, in questi giorni. Impossibile non pensare alle donne e agli uomini che hanno combattuto, e sono morti, per liberare l’Italia dal fascismo. Penso a una storia di resistenza e riscatto, oggi clamorosamente finita. E penso ai profondissimi danni culturali che farà una retorica antirepubblicana e anticostituzionale esercitata dai più alti pulpiti della Repubblica.
Sappiamo bene perché siamo arrivati a tanto, inutile far finta di nulla: il tradimento di ogni pur vaga idea di sinistra, la successione di governi sempre più nemici del progetto costituzionale, giù giù fino all’oligarchia direttamente al potere con Draghi. Una traiettoria micidiale, capace di produrre la più grande astensione della storia repubblicana: e quindi – anche grazie a una legge elettorale incostituzionale, allo scellerato taglio dei parlamentari e al tradimento del Pd di Enrico Letta, che ha scelto di demolire l’unico possibile fronte antifascista – il trionfo di una destra estrema davvero orribile, che si prende l’Italia con nemmeno il 27% dei suffragi degli aventi diritto al voto. E spero che coloro che ci hanno condotto in questo abisso – a cominciare dal presidente Mattarella, autore di scelte drammaticamente sbagliate, e decisive nel condurci quaggiù – possano riconoscere, almeno in cuor loro, le enormi responsabilità che si sono assunti.
Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni – onesto almeno nell’usare un maschile grammaticamente improprio, ma trasparente nel mostrare la sua totale adesione al dominio maschile, e al suo paradigma culturale – ha tenuto un discorso terribile. E non solo perché annuncia – tra le altre cose – i blocchi navali contro i poveri dalla pelle scura, una scuola che giudica ed esclude, una feroce ostinazione nella guerra atlantica, le mani libere di chi vuole fare i propri affari, un fisco bestialmente iniquo, lo stravolgimento presidenziale della Costituzione e la secessione dei ricchi con l’autonomia differenziata… Tutte cose che già conosciamo e subiamo dalle parole e dalle opere dei governi “di unità nazionale” e di quelli (nei fatti indistinguibili) di centro-sinistra: da questo punto di vista, cambia il ceto politico, non cambiano le politiche.
Cambia però il piano culturale: e lo annuncia un discorso culturalmente fascista. Non inganni l’abiura di maniera, che getta (al solito) il fascismo nel mucchio di tutti i regimi totalitari per i quali il capo del governo non avrebbe «simpatia» (unica parola sfumata in un discorso per il resto trucissimo), né la condanna (inevitabile) delle leggi razziali: quello che non c’è, è una lettura seria e sistematica del fascismo come «regime della menzogna» (Calamandrei), quel fascismo che era la stella polare del Movimento Sociale e che continua ad esserlo nella fiamma dello stemma di Fratelli d’Italia. Il fascismo come ideologia della morte e della violenza, come modo di pensare, come filtro per vedere e governare il mondo: quello che porta necessariamente al regime e alle leggi razziali. Meloni prende le distanze da (alcuni) frutti: ma non condanna affatto l’albero. Del resto, rivendica nella replica, non ha mai cambiato idea, su nulla.
A farlo capire non è tanto la prevedibilissima assenza di ogni citazione della Resistenza (meglio così: sarebbe stata una profanazione), né la conseguente idea, grottesca, di una Repubblica fondata direttamente sul Risorgimento. A farlo capire è invece la retorica della nazione, che permea da capo a piedi il testo del capo del governo. Non c’è Stato e non c’è Repubblica: non c’è demos. Il capo parla a una nazione per via di sangue, a un ethnos impermeabile alla storia. Con una grossolana improprietà costituzionale, e anche storica (giacché non sono mancate donne a capo di governi nella lunga storia della nazione italiana) si definisce «la prima donna a capo del Governo in questa Nazione». Si impegna a «liberare le migliori energie di questa Nazione» (dunque non dei migranti che sono tra noi?), parlando dell’Europa ci definisce «una grande Nazione fondatrice» (strana idea dei trattati internazionali), parlando dell’energia afferma che «la nostra Nazione, in particolare il Mezzogiorno, è il paradiso delle rinnovabili, con il suo sole, il vento, il calore della terra, le maree, i fiumi» (confondendo la nazione con il territorio), promettendo «la garanzia di vivere in una Nazione sicura» (e dunque gettando nell’insicurezza chi, pur vivendo, tra noi, alla nostra nazione non appartiene)… E soprattutto, in un passaggio, da brividi, il capo del governo afferma che «quello che ci interessa è come sarà l’Italia tra 10 anni, e sono pronta a fare quello che va fatto, a costo di non essere compresa, a costo perfino di non venire rieletta, per essere certa di avere reso con il mio e il nostro lavoro il destino di questa Nazione più agevole». Il «destino della Nazione»! Eccoci proiettati in una dimensione iniziatica, in cui salta la comunicazione razionale, e si impone l’impero del sangue, una identità sapor di terra, l’ineluttabilità della stirpe e di ciò che il destino (qualunque cosa voglia dire) le prepara.
Parlare, governare, decidere in nome degli italiani in quanto nazione significa negare le differenze sociali, culturali, religiose, politiche in nome di una unità metafisica e fatale: che ha necessariamente bisogno di essere interpretata da vati e duci. Significa spostare il discorso politico su un piano in cui non esistono controlli, contrappesi, dialettica, dissenso e opposizione: ma invece esistono ore fatali in cui si prendono decisioni irrevocabili che facciano la storia rispondendo alla chiamata del destino. Con Calamandrei, che vedeva la propria patria negli inglesi e nei francesi che combattevano contro le truppe dell’Italia fascista, non mi identifico con una nazione, ma con il progetto politico della Costituzione del 1948 e con chiunque lo difenda: qualunque lingua parli, ovunque abiti, qualunque sia il colore della sua pelle.
La Costituzione usa con grande oculatezza il termine “nazione”. E in ogni caso ne esclude un nesso diretto con il potere esecutivo. A rappresentarla è ogni parlamentare: tutti, opposizioni incluse. A rappresentarne l’unità è il Presidente della Repubblica: un organo di garanzia, non di governo. Perché troppi morti era costato il culto dello Stato-nazione, e proprio quello è il paradigma che allora si volle rompere, tratteggiando nell’articolo 9 una nazione non del sangue, ma della cultura – e dunque per sua natura porosamente aperta al mondo, e non disposta alla guerra. E, invece, nelle parole del nuovo capo del governo, la nazione diventa “patria” quando si tratta di chiedere la vita alle donne e agli uomini delle Forze armate. Ecco tornare, con prepotenza e in un momento terribile, l’antica menzogna della dolce morte per la patria.
Nell’ideologia di Meloni non conta la persona (con il suo corpo, la sua libertà, i suoi diritti: si pensi alle donne e all’aborto): no, conta la nazione. Questo mostruoso dispositivo di annullamento della dignità e della libertà della persona umana.
Deve esserci, dunque, ben chiaro che se il ceto politico e le stesse politiche non sono in fondo molto diversi da quelli dei governi degli ultimi decenni (da qua la servile acquiescenza dei grandi giornali), la cultura politica dei nuovi padroni del Paese è quintessenzialmente lontana da ogni forma di democrazia, agli antipodi dalla visione e dal progetto costituzionali. Per chi ama la cultura costituzionale italiana, per chi ha scelto di vivere e lavorare al servizio di una istituzione pubblica è terribilmente amaro, a tratti insopportabile, vedere insediata al vertice della Repubblica una cultura così radicalmente avversa ai valori della Repubblica stessa. Gli altri hanno devastato l’Italia tradendo i loro sbandierati valori, questi la devasteranno applicandoli: sul piano del discorso pubblico, della cultura, della scuola non sarà una differenza da poco.
Se da un punto di vista politico, l’unica strada possibile è ora quella di una radicale rifondazione delle forze democratiche e di sinistra che veda uscire di scena il ceto politico che ha condotto in questo vicolo cieco e nero la democrazia italiana, da un punto di vista culturale è il tempo di tornare a difendere e praticare, in ogni occasione e in ogni luogo, la visione laica, repubblicana, antifascista, personalista, internazionalista e multiculturalista della Costituzione. L’unico argine che, per ora, ci resta.