È evidente che gli inviti a disertare le urne coprono un uso strumentale delle regole base della democrazia. Solo la mancanza profonda di senso delle istituzioni da parte della nuova classe dirigente del Paese può giustificare atteggiamenti al limite dell’illecito. Se non si vuole scomodare l’articolo 98 del testo unico sulle leggi elettorali (esteso dall’articolo 51 della legge 352 del 1970 anche ai referendum) che punisce i pubblici ufficiali che nell’esercizio delle proprie funzioni inducono gli elettori all’astensione, basta ricordare l’articolo 54 della nostra Costituzione che impone a tutti i cittadini che ricoprono pubbliche funzioni il dovere di svolgerle con disciplina e onore. Può la presidente del Consiglio, affiancata da un coro coordinato dalla seconda carica dello Stato, ma composto dall’intero governo e dalla maggioranza dei parlamentari eletti, invitare a non esercitare quel che la nostra Costituzione indica come «dovere civico»?
Chi avesse lo sguardo lungo – una classe dirigente degna del nome – dovrebbe comprendere che la salvaguardia delle regole di base di una democrazia valgono più di ogni tatticismo e non possono essere piegate a scopi contingenti. L’invito al non voto favorirà l’astensionismo dalla politica, non solo nel caso del referendum. Già ora circa metà degli aventi diritto disertano le urne, incoraggiare questa tendenza è irresponsabile.
A meno che non si voglia immaginare una democrazia a basso tasso di legittimazione popolare. In fondo per le elezioni politiche non v’è alcun quorum da aggiungere e, dunque, perché sprecarsi ad ottenere il consenso di larghe fasce di popolazione? Bastano coloro che sono direttamente interessati alle questioni di governo. Un tempo la limitazione del suffragio garantiva questo risultato, oggi si può ottenere il medesimo esito disincentivando l’esercizio di un diritto che appartiene a tutti i cittadini. Se non bisogna andare a votare ai referendum perché le questioni poste (lavoro e cittadinanza) sono «troppo complesse», figuriamoci che deve dirsi delle politiche nazionali e internazionali che devono essere decise dai governi della Repubblica. Governare è un’arte che non può essere compresa da tutti e dunque: lasciateci lavorare, andate al mare.
In fondo, la limitazione della partecipazione attiva sostituita da un aumento della propaganda politica si pone a fondamento di ogni regime autoritario. Non siamo ancora a questo, ma non ne siamo neppure troppo lontani. Per ora non ci sono divieti, ma solo buoni consigli, esempi da imitare, escamotage da ideare per irridere alle regole poste in costituzione, per sterilizzare gli istituti posti a fondamento della partecipazione popolare. Oggi il referendum, domani il parlamento.
Anzi, a ben vedere s’è già fatto un bel pezzo di strada. Basta non invertire la rotta e proseguire nella emarginazione del parlamento, nella concentrazione dei poteri nelle mani del governo e del Capo dell’esecutivo, nella sterilizzazione dei controlli, di quelli dei giudici in particolare, limitare – non ancora impedire – i diritti e le libertà dei singoli.
A voi ricorda qualcosa quest’elenco? A me – chissà perché? – fanno venire in mente le ultime riforme promesse. In primo luogo, l’inarrestabile ascesa della decretazione d’urgenza ormai sostitutiva in toto dell’attività del parlamento, così come dimostra l’ultima vicenda della trasformazione del disegno di legge sicurezza in un decreto legge alla viglia della sua approvazione parlamentare. In secondo luogo, la riforma costituzionale del premierato che si propone non solo di concentrare i poteri di governo al vertice dell’esecutivo, ma anche di subordinare il parlamento mediante la previsione di una maggioranza presidenziale artificialmente imposta. In terzo luogo, le misure reiterate per sfuggire la controllo di magistrati che fanno prevalere le ragioni dello stato di diritto su quelle del potere politico, nel caso dei migranti, ma non solo, e che troveranno la loro epifania nella riforma costituzionale di separazione delle carriere. In quarto luogo, le misure sull’ordine pubblico che appare una solida costante dell’attuale governo, dal decreto anti-rave al decreto sicurezza, che ci sta portando in tempi rapidi a un diritto penale illiberale, ma in generale ad una visione della società e del conflitto sociale lontana da quella degli stati di democrazia sociale pluralista.
È vero che tutto ciò non può essere dedotto da una dichiarazione di Giorgia Meloni degna di Nanni Moretti («Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?»), ma ogni tanto la comicità involontaria aiuta a capire.