L’esito ancora in bilico delle elezioni americane getta un fascio di luce sulla drammatica ambiguità del tempo che stiamo vivendo. Un tempo di incertezze in cui la vita stessa dell’umanità è soggetta al rischio della rovina. Un tempo in cui la potenza tecnologica, dopo aver raggiunto vette inimmaginabili, deve confrontarsi con la fragilità del fattore umano, messa in evidenza dalla pandemia, e con le minacce agli ecosistemi che consentono la vita sulla Terra, provocate dal mutamento planetario del clima in corso.
Questi due fattori di crisi globale a loro volta si combinano fra di loro e chiamano in causa un terzo fattore, quello della responsabilità della politica che dovrebbe guidare le comunità umane. Per questo si sono rivelate profetiche le predizioni di intellettuali americani come Noam Chomsky che, nel novembre del 2016, aveva avvertito che l’elezione di Trump sarebbe stato un disastro per il genere umano.
L’avvento di Trump alla guida degli Stati Uniti non è stato un disastro solo per il Paese che lo ha scelto, ma ha realmente gettato un’ombra nera sulla vita della Terra. A cominciare dall’uscita degli Stati Uniti, cioè la potenza più inquinante del mondo, dall’accordo di Parigi sul clima, che ha fortemente danneggiato i timidi passi intrapresi dalla comunità internazionale per fronteggiare i mutamenti climatici. Il disprezzo per il diritto internazionale e per le conquiste di civiltà faticosamente consolidate attraverso una trama di trattati multilaterali messi a punto nel quadro dell’ONU è diventato, nel corso del suo mandato, moneta corrente ed è stato esibito con la massima sfrontatezza, com’è avvenuto con la licenza concessa a Israele di annettersi una parte dei territori occupati e con l’adozione di sanzioni ad personam nei confronti degli organi della Corte penale internazionale.
Il disprezzo per il bene pubblico della salute, che ha portato alla contestazione della riforma sanitaria Obama, ha raggiunto il suo massimo apice nel modo con cui è stata affrontata la pandemia da Covid-19, che ha portato gli Stati Uniti a essere il Paese al mondo dove si è sviluppata la massima diffusione dell’epidemia con nove milioni e mezzo di contagiati e oltre 234.000 vittime. Il negazionismo dettato dall’esigenza di non rallentare la macchina produttiva e l’insensibilità verso i soggetti più fragili, hanno portato ai massimi livelli la cultura dello scarto incarnata dall’amministrazione Trump.
L’esito ancora in bilico delle elezioni americane getta un fascio di luce sulla drammatica ambiguità del tempo che stiamo vivendo. Un tempo di incertezze in cui la vita stessa dell’umanità è soggetta al rischio della rovina. Un tempo in cui la potenza tecnologica, dopo aver raggiunto vette inimmaginabili, deve confrontarsi con la fragilità del fattore umano, messa in evidenza dalla pandemia, e con le minacce agli ecosistemi che consentono la vita sulla Terra, provocate dal mutamento planetario del clima in corso.
Questi due fattori di crisi globale a loro volta si combinano fra di loro e chiamano in causa un terzo fattore, quello della responsabilità della politica che dovrebbe guidare le comunità umane. Per questo si sono rivelate profetiche le predizioni di intellettuali americani come Noam Chomsky che, nel novembre del 2016, aveva avvertito che l’elezione di Trump sarebbe stato un disastro per il genere umano.
L’avvento di Trump alla guida degli Stati Uniti non è stato un disastro solo per il Paese che lo ha scelto, ma ha realmente gettato un’ombra nera sulla vita della Terra. A cominciare dall’uscita degli Stati Uniti, cioè la potenza più inquinante del mondo, dall’accordo di Parigi sul clima, che ha fortemente danneggiato i timidi passi intrapresi dalla comunità internazionale per fronteggiare i mutamenti climatici. Il disprezzo per il diritto internazionale e per le conquiste di civiltà faticosamente consolidate attraverso una trama di trattati multilaterali messi a punto nel quadro dell’ONU è diventato, nel corso del suo mandato, moneta corrente ed è stato esibito con la massima sfrontatezza, com’è avvenuto con la licenza concessa a Israele di annettersi una parte dei territori occupati e con l’adozione di sanzioni ad personam nei confronti degli organi della Corte penale internazionale.
Il disprezzo per il bene pubblico della salute, che ha portato alla contestazione della riforma sanitaria Obama, ha raggiunto il suo massimo apice nel modo con cui è stata affrontata la pandemia da Covid-19, che ha portato gli Stati Uniti a essere il Paese al mondo dove si è sviluppata la massima diffusione dell’epidemia con nove milioni e mezzo di contagiati e oltre 234.000 vittime. Il negazionismo dettato dall’esigenza di non rallentare la macchina produttiva e l’insensibilità verso i soggetti più fragili, hanno portato ai massimi livelli la cultura dello scarto incarnata dall’amministrazione Trump.
Sul piano interno Trump ha fatto venire a galla il fondo nero dell’anima americana, quello incarnato dai riti nazisti del Ku Klux Klan; ha incoraggiato i gruppi paramilitari e i suprematisti bianchi, col risultato che ormai ci sono milizie armate dovunque che si coagulano su messaggi d’odio nei confronti delle minoranze, di immigrati e stranieri. Il populismo arrogante di Trump e la sua insofferenza nei confronti di ogni controllo (a cominciare dalla stampa) hanno creato una profonda frattura nella società americana e nell’ordinamento politico. In passato le elezioni americane per la scelta del Presidente (che negli USA impersona le funzioni di Capo dello Stato e di Capo del Governo), apparivano come una competizione fra due diverse correnti dello stesso partito, poiché entrambi i candidati concorrenti e i loro partiti si muovevano all’interno dello stesso mainstream politico. Di conseguenza anche l’interesse dei cittadini e la partecipazione popolare era limitata. Questa volta invece la scelta del Presidente marcava uno spartiacque insuperabile e metteva in gioco valori profondi, attinenti non soltanto allo scivolamento dell’ordinamento politico verso un sistema autoritario, ma alla stessa convivenza pacifica fra gruppi sociali all’interno di un Paese sempre più ostaggio della violenza pubblica e privata, come evidenziato dal movimento Black lives matter. Questo spiega la grande partecipazione popolare alle elezioni con un’affluenza al 66% che non si era mai vista in un Paese dove il voto non costituisce dovere civico e dove per poterlo esercitare bisogna fare una trafila per iscriversi nelle liste elettorali.
Lo scenario che si presenta quando il risultato sembra definito a favore di Biden, sebbene il conteggio dei voti sia ancora in corso, è quello di uno straordinario radicamento della politica populista di Trump. Come ha osservato Nadia Urbinati, anche se Biden dovesse vincere: «la sua vittoria sarebbe così risicata da non avere da sola la forza di liberare la scena politica dal populista Trump». Ma il passaggio dei poteri si profila come molto complicato, dopo che Trump, alla Casa Bianca, si è proclamato vincitore e ha dichiarato a priori di non accettare il verdetto delle urne se a lui sfavorevole. In una situazione di scontro politico incandescente, con le milizie armate dei suprematisti bianchi che inneggiano a Trump, basta una scintilla per appiccare un incendio.
Permane l’incertezza in cui siamo immersi tutti e che ormai è diventata una condizione esistenziale, sospesi come siamo fra passato e presente, fra la vita e la morte, fra una politica da incubo e la speranza incomprimibile di una vita migliore.