In un libro, il cui indicativo titolo svelerò alla fine, Luce Irigaray scriveva: «la parola democrazia si usa molto oggi. Ma spesso è diventata uno slogan che non significa granché. Ciascuno(a) si ritiene un democratico migliore dell’altro, ma rivendica così di essere “migliore”, più che “democratico”». Essendo riferite a un “oggi” di molto tempo fa, queste parole innanzitutto ci consolano. Perché ci ricordano che il disorientamento circa la misura della democrazia non è semplicemente cosa di adesso. Ma è una consolazione breve, perché tutto ciò può anche voler dire che le cose che accadono oggi, accadono ancora oggi. Stiamo assistendo alla rimozione definitiva di quella misura che rappresentava un segno fragile e prezioso delle democrazie moderne. La democrazia è anche questo: una misura -smarrita la quale- l’essere umano ricade nel suo vizio incessante di tracotanza, una misura che pone un limite all’esercizio senza limite del potere.
Ma adesso finalmente i migliori ci governano e si ritengono più democratici di tutti gli altri. Per questo sono i migliori. E anche perché siamo ormai in pochi a non riconoscerli come tali. O a credere che i migliori non fanno necessariamente una democrazia migliore. C’è un’ampia alleanza che unisce – forti dello spettacolo osceno dei populisti degli ultimi anni – le nostre élites, i nostri giornali mainstream ma anche, se esiste ancora, il ceto medio intellettuale. Essa si fonda sulla convinzione che la democrazia debba essere difesa dalla minaccia dei peggiori, non dei migliori. Che è un po’ come dire che a garantire il buon esito della Rivoluzione francese sarebbero stati i nobili, in effetti. Qual è il limite delle nostre democrazie? Suggeriscono i migliori: il governo delle leggi e la divisione dei poteri, ciò che permetterebbe di non avere un potere che sia sopra gli altri. È perché ci sono troppe leggi e troppi controlli che non si riesce a governare, così si dice, no? A questa diagnosi dei migliori si accodano quasi tutti i media, ormai cani da guardia del potere (genitivo soltanto soggettivo).
È inutile far notare che in realtà questo Paese – pur avendo variato nominalmente tanti governi – è di fatto dal 2011 che subisce politiche sociali e istituzionali in piena continuità tra di loro (forse con l’unica eccezione del secondo governo Conte, almeno in parte). Un unico programma di governo portato avanti da tanti governi. Come è inutile far notare che sono anni ormai che il tempo della politica è esecutivo, secondo la magistrale – e ahimè profetica – definizione di Gustavo Zagrebelsky. Quale migliore occasione per superare questi presunti limiti e andare verso un tempo ancor più esecutivo, se non il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza? Basta leggere il decreto legge n. 77 del 2021 per capirlo. Il decreto che accende i motori della nostra irrefrenabile occasione di resilienza. Un’occasione che non possiamo sprecare, un interesse nazionale. Dobbiamo correre e sfrenarci. Ci sono due parole che sono indizi di questa dinamica e che val la pena ricordare.
La prima parola è semplificazione. Semplificare non vuol dire semplicemente ridurre, ma soprattutto riportare all’essenziale. Quanto alla riduzione, qui salta subito agli occhi che per semplificare s’inventano figure che appaiono, nella numerosità e nei nomi, quasi grottesche: la Cabina di regia, la Segreteria tecnica, l’Unità per la razionalizzazione e il miglioramento della regolazione, il Tavolo permanente con le parti sociali e gli enti territoriali, il servizio centrale per il PNRR, un ufficio dirigenziale avente funzioni di Audit, ecc. In fondo c’è anche del positivo in tutto questo: finalmente possiamo demistificare quella caccia propagandistica alle streghe contro la burocrazia. Da ora sappiamo che il problema reale è quello di una cattiva burocrazia e che sarà risolto dalla produzione di ulteriore burocrazia, ma stavolta buona, perché sotto il controllo dei migliori.
Se non hanno ridotto, certamente i migliori avranno essenzializzato. A leggere quel decreto non è difficile capire che essenzializzare qui significa soltanto accelerare (basterebbe leggere un sociologo accorto come Hartmurt Rosa per capire le inquietanti conseguenze sociali e politiche di questa ossessione per l’accelerazione). Portare al più presto a compimento l’idea di società che il PNRR contiene e che non è stata discussa da nessuno, che è stata esplicitamente indicata dall’alto, come condizione per ottenere i fondi (ma non erano fondi senza condizionalità? Chissà se il governo Conte non sia caduto anche per questo…).
Rispondo preventivamente e anche con un certo fastidio alla prevedibile obiezione dei migliori: prendiamo i soldi e pretendiamo pure di non fare delle riforme? I migliori saranno pure migliori, ma l’argomento è mediocre: non solo perché le riforme non sono per forza queste riforme e non si devono attuare per forza con queste condizioni di sospensione delle regole democratiche, ma soprattutto perché, come chi ha dei debiti non diventa uno schiavo, così una democrazia che accede a dei fondi non sta svendendo il proprio dovere di autogoverno (la Grecia non ha smosso le nostre coscienze europee). I debiti e i crediti non sospendono la democrazia, sennò si chiamerebbe plutocrazia. E ciò che definisce la democrazia sono anche quelle due piccole amenità che oggi i migliori indicano come limiti da superare: il governo delle leggi e la divisione dei poteri.
Ecco la seconda parola chiave: sostituzione. Questo decreto legge inventa la formula magica per semplificare: i “poteri sostitutivi” (ha anche un suono taumaturgico, a pronunciarla). Le leggi infatti magicamente si sospendono, perché, quando c’è da correre, le leggi da misura diventano freno. Ma se le leggi si possono sospendere, alla malizia del governo degli uomini come ci si può opporre? Semplice, se qualche organo territoriale ostacola l’attuazione del PNRR, allora viene subito sostituito nell’esercizio del suo potere dal Presidente del Consiglio, il migliore dei migliori. E questo non vale soltanto quando gli enti territoriali non rispettano gli obblighi o ritardano per inerzia, ma anche quando vi sia “dissenso, diniego e opposizione”.
Così questo stesso governo che porta ostinatamente avanti il progetto di regionalismo differenziato, risolve in due righe la questione e lascia alle regioni e a tutti gli organi territoriali il solo potere di dire sì. Se, per fare solo un esempio che suona persino ridicolo per quanto è anacronistico, il PNRR prevedrà il ponte sullo stretto di Messina, chiunque oserà opporsi perderà ogni potere legittimamente avuto e lo perderà per il semplice fatto di negare. La sostituzione è niente altro che un’elevazione o una riduzione dei poteri alla singolarità del Presidente del consiglio, che diventa così un vero e proprio primus super partes (che è poi una curiosa coincidenza linguistica: tutte le agiografie del nostro Presidente dei migliori insistono su questo suo carattere di super partes, senza pensare che la democrazia è tale proprio perché esclude che qualcuno possa essere tale).
Il titolo del libro da cui sono partito è questo: La democrazia comincia a due. Il riferimento di Irigaray è ovviamente il due della differenza sessuale. E a me non pare affatto che questo due sia così lontano dalle mie obiezioni. Perché se dovessi indicare quale sia la cifra prevalente con cui il capitalismo contemporaneo sta riorganizzando le nostre vite, non farei troppa fatica a individuarla nel paternalismo. Basti pensare alla vergognosa arroganza con cui imprenditori poco coraggiosi si rivolgono paternalisticamente ai lavoratori per dire loro ciò che è giusto fare o non fare delle loro vite.
È seguendo la traccia di questo paternalismo che riconosciamo in profondità la minaccia di quanto sta succedendo. Innanzitutto perché comprendiamo, e non è certo una novità, come ciò che ci appare come un’emergenza democratica proviene da un modo ormai amplificato da parte del Capitale di esercitare i propri rapporti di forza. E, in secondo luogo, perché questi rapporti di forza si stanno istituzionalizzando e, in questo senso, hanno ormai invaso definitivamente lo spazio della democrazia.
Con un ulteriore salto di qualità. I migliori non si accontentano del paternalismo. Lo devono trasformare in un indirizzo di governo. La democrazia si sta lentamente trasformando in un patriarcato. Con buona pace di chi ha nostalgia di padri evaporati in un mondo sempre più brutalmente soffocato dal capitale e dalle sue leggi patriarcali. Forse dovremmo partire da qui, riconoscendo che è il patriarcato la vera misura della trasformazione in atto della democrazia (il paternalismo è solo una traccia soggettiva di questo processo oggettivo, per così dire).
La democrazia comincia sempre a due. Ma troppo spesso finisce a uno. E quest’uno è sempre maschio, bianco e ricco. Io invece accolgo il monito contenuto nelle parole iniziali di Irigaray e non abdico a una nota di diffidenza, per quanto possa suonare stonata: non credo che dove governano i migliori ci sia necessariamente una democrazia migliore.
PS. Dopo aver scritto questo articolo, mi giunge la notizia delle nomine effettuate dalla Presidenza del Consiglio per far parte del “Nucleo tecnico per il coordinamento della politica economica”, col compito di valutare le ricadute economiche del PNRR. Sono i migliori, senza dubbio (certo, la trasparenza e i criteri con cui vengono fatte queste nomine restano del tutto ignote, con buona pace dell’ideologia del merito che vale ovviamente per gli altri, per quelli che non stanno dalla parte dei migliori). Tutti sfacciatamente iperliberisti.
Forse va detto meglio: l’unica qualità per cui sembrano brillare è di essere degli esibizionisti dell’iperliberismo e dell’anti-statalismo economico (smontando definitivamente quel breve malinteso comunicativo secondo cui Draghi appariva come il fedele allievo keynesiano di Federico Caffè, contro tutte le politiche economiche da lui avallate in Europa in questi anni). Col compito però di valutare le politiche economiche innescate da investimenti pubblici. Dunque di trasformare una potenziale occasione keynesiana in un gigantesco sistema di decostruzione definitiva del ruolo dello Stato in economia. Come se gli ultimi vent’anni non ci fossero stati.
Un’ultima cosa. Sono in tutto sei persone. Anzi, sono cinque uomini e una donna. La grande alleanza tra capitalismo e patriarcato continua, con il supporto del governo dei migliori. Non resta che allacciarci le cinture, adesso che siamo davvero senza freni.