I giudici costituzionali hanno smontato la legge Calderoli. Il suo testo rimane formalmente in vigore, ma monco delle sue parti essenziali, senza le quali non può operare, né essere in alcun modo applicato. La parola torna pertanto al Parlamento che per assicurarne la «funzionalità» è ora tenuto a metter mano alla normativa, «nel rispetto dei principi costituzionali» e garantendo i diritti.
Principi e diritti che la legge Calderoli aveva gravemente violato.
Due le questioni di rilievo poste dalla sentenza: la prima di carattere procedimentale, la seconda di tipo sostanziale.
Sul piano procedimentale, la Corte ripristina il primato delle assemblee elettive, precisando che le decisioni fondamentali in materia non possono essere rimesse «nelle mani del Governo, limitando il ruolo costituzionale del Parlamento». Niente più, quindi, decreti-legislativi adottati in assenza di «inidonei criteri direttivi» (cd. deleghe in bianco). E niente più decreti del capo del governo per rideterminare i livelli essenziali di prestazione dei diritti.
Il giudice costituzionale, oltre a intervenire sul corpo della legge n. 86/2024, ha anche censurato lo spirito, i principi e le ragioni di fondo che ne avevano ispirato la stesura. Dal comunicato della Corte apprendiamo, in particolare, che l’impianto costituzionale della Repubblica non ammette il trasferimento di materie o ambiti di materie, ma solo di «specifiche funzioni legislative e amministrative», in «relazione alla singola regione» e in coerenza con il principio di sussidiarietà verticale.
Ne discende che per i giudici costituzionali lo Stato non è legittimato a trasferire un’intera materia (come la sanità o l’istruzione), ma solo funzioni peculiari di questa. Né tantomeno può procedere al trasferimento delle ventitré materie contemplate all’art. 117, terzo comma, della Costituzione (una sorta di surrettizia revisione costituzionale per via legislativa). E questo perché la distribuzione delle funzioni legislative e amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo deve necessariamente «avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione».
I profili di incostituzionalità ravvisati dalla Corte sono ben sette. Su altri il giudice delle leggi ha, invece, preferito affidarsi a un’interpretazione costituzionalmente orientata. Ricorrendo a tale tecnica interpretativa la Corte ha inteso implicitamente ribadire che nella legge vi sono altre disposizioni critiche (in materia di iniziativa legislativa, potere di emendamento delle Camere, qualificazione dei “no lep”, clausola di invarianza finanziaria). E che queste disposizioni, qualora interpretate diversamente, sarebbero anch’esse illegittime.
Si tratta di questioni particolarmente delicate non solo sul piano strettamente ermeneutico e giuridico, ma anche sul piano politico. Anzitutto per i destini dell’iter referendario. Per ponderare le conseguenze e gli effetti della decisione della Corte su questo terreno non basta però un comunicato. È necessario conoscere il testo della sentenza. Come è sempre avvenuto. Ma questa volta ancor di più. Siamo in presenza di una pronuncia “complessa” che, oltre a dichiarare l’incostituzionalità di talune disposizioni contenute nella legge Calderoli, ne ridefinisce, sul piano sistematico-interpretativo, i confini e la portata. Solo una volta appreso il testo della sentenza, saremo nelle condizioni di valutare se esistono le premesse non solo giuridiche (in termini di ammissibilità), ma anche politiche (in termini di opportunità) per un referendum abrogativo.
Al momento ci basta constatare che l’asse politico della legge Calderoli è stato azzoppato dal giudice costituzionale. Sia direttamente accogliendo gran parte delle censure di incostituzionalità mosse dalle Regioni ricorrenti, sia indirettamente, in via interpretativa. Ma, soprattutto, ci piace evidenziare che la Corte ha, una volta per tutte, chiarito che il regionalismo italiano (nonostante le gravi ferite arrecategli dalla revisione del titolo V) è un regionalismo sociale e solidale. E che per l’egoismo territoriale non c’è spazio nella nostra Costituzione.