Non fa più scandalo che la legge di bilancio sia approvata senza discussioni da un Parlamento che si limita a ratificare le scelte del Governo. In passato qualche reazione c’è stata, due conflitti furono proposti al giudizio della Consulta, ora ci stiamo abituando alle forzature. A ben vedere non si tratta neppure di una vicenda, per quanto sgradevole, comunque isolata. Stiamo in realtà assistendo ad un generale riassetto degli equilibri tra i poteri che si impone senza bisogno di modifiche normative.
Così, non può dirsi che sia mancata del tutto la discussione sulle scelte politiche della manovra: sono state introdotte modifiche, anche rilevanti, rispetto all’originario disegno di legge presentato dal Governo. Solo è che la trattativa e poi il compromesso tra le forze politiche si sono svolti fuori dal Parlamento.
I capigruppo sono stati ricevuti dai Ministri competenti (da quello dell’economia e dalla presidenza del Consiglio), ciascuna componente di maggioranza, ma anche l’opposizione, ha avanzato le proprie richieste riuscendo – chi più chi meno – ad ottenere «concessioni», le quali sono poi state inserite nel maxiemendamento presentato dal Governo e fatto approvare con voto di fiducia, senza possibilità di ulteriori modifiche. Lo svuotamento del Parlamento e l’inutilità del ruolo dei parlamentari non potevano essere più evidenti. La centralità del Governo come unico luogo di sintesi politica si è affermato senza contrappesi.
Non si tratta neppure solo di spostamenti di poteri decisionali dal Parlamento al Governo collegati alle particolarità della legge di bilancio. Si tratta, invece, di episodi di una più vasta strategia di «fuga dal Parlamento». Con questa formula Leopoldo Elia denunciava, all’inizio del secolo, il rischio di una modifica progressiva degli equilibri della nostra forma di governo. Oggi registriamo un’accelerazione che sta provocando il collasso del sistema parlamentare e l’imporsi di un sistema di convergenza delle decisioni politiche in un’unica sede, quella esecutiva. Alcune forzature sono state legittimate – e sino ad un certo punto anche giustificate – dallo stato di necessità nella quale siamo precipitati con lo scoppio della pandemia.
In altri casi l’emergenza ha solo acuito tendenze già da tempo presenti. Nel complesso, comunque, una trasformazione progressiva che non solo ha cambiato il sistema dei poteri, ma ha anche mutato il quadro della crisi. In effetti appaiono superate le critiche più tradizionali legate, ad esempio, all’abuso della decretazione d’urgenza, sostituite dalla inversa richiesta di adottare proprio questa tipologia di fonti in sostituzione dei famigerati Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (Dpcm). L’invito è stato accolto. E così ora si procede con la media di un decreto-legge a settimana.
Si sono d’improvviso anche rotti gli argini che faticosamente la normativa sul governo (la legge 400 del 1988), la giurisprudenza della Consulta, nonché i moniti del Capo dello Stato avevano eretto: chi discute più della mancanza di specificità e omogeneità, della necessaria applicazione immediata delle misure contenute, del divieto di rinnovare la normativa contenuta in precedenti decreti non convertiti? Oggi l’attenzione si rivolge ai problemi legati al succedersi senza sosta dei provvedimenti del Governo che pone la nuova e perversa questione dell’assorbimento di quelli non ancora convertiti (decreti matrioska).
Così anche in sede di conversione la richiesta di far svolgere una rapida discussione ad uno solo dei due rami del Parlamento (monocameralismo alternato) è all’origine di un nuovo modo di legiferare, che non riguarda più neppure solo la decretazione d’urgenza, sottraendo competenze costituzionalmente attribuite a ciascuna Camera. In questa situazione è evidente che anche le più criticate prassi legate alla presentazione di maxiemendamenti ovvero l’abuso delle richieste di fiducia assumono un altro tenore: proposte ormai senza nessuna remora e assunte come consuetudini consolidate.
Un riassetto degli equilibri tra i poteri si registra anche all’interno dell’organo Governo. In parte ciò è certamente dovuto a fattori contingenti: il carattere di unità nazionale dell’attuale esecutivo, la forza e l’autorevolezza del Presidente del Consiglio, le debolezze e le incertezze delle forze politiche. Condizioni che hanno fatto assumere al Presidente del Consiglio il ruolo di decisore ultimo della politica nazionale a scapito della collegialità del governo e della responsabilità individuale dei singoli ministri. È presto per dire se questa presidenzializzazione di fatto dell’organo governo si consoliderà, quel che però si deve rilevare è il rafforzarsi di prassi che operano in tal senso.
D’altronde la tendenza alla presidenzializzazione della politica non è tendenza di oggi e difficilmente potrà essere arrestata, semmai potrà assumere nuove forme. La questione che allora deve porsi pensando al futuro della nostra democrazia è principalmente la seguente: come potrà reggere un sistema politico sempre più verticalizzato senza un Parlamento in grado di bilanciare il potere del Governo? Le sole istituzioni di garanzia (Presidente della Repubblica e Corte costituzionale) non possono supplire all’assenza di un Parlamento sempre meno in grado di esercitare i suoi poteri di indirizzo e controllo.
Questione che diventerebbe ancor più problematica se – come molti auspicano – si volesse assegnare al Quirinale il ruolo di promotore delle politiche di governo, anziché di garante degli assetti costituzionalmente imposti. Mentre il sistema politico e l’intera opinione pubblica pensano solo a chi deve essere il prossimo Presidente della Repubblica, i più consapevoli dovrebbero preoccuparsi di rafforzare il ruolo del Parlamento, richiamando il monito di Hans Kelsen, che in tempi non sospetti avvisava che “alla sorte del parlamentarismo è legata la sorte della stessa democrazia”.