L’Europa di Altiero Spinelli avrà un futuro? Non è un interrogativo retorico. È un interrogativo che mi pongo, in attesa del 9 giugno, quando l’esito delle elezioni europee ci dirà quale sarà il futuro dell’Europa. Una Europa che vede, fra i paesi aderenti, governi che sono in Europa con un disegno politico opposto a quello disegnato da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, nel Manifesto scritto a Ventotene, dove si trovavano confinati, perché antifascisti militanti.
Anche in paesi, come il nostro, che all’Europa, per quanto ancora incompiuta, hanno dato fiducia, sono in crescita forze ostili all’unità europea. Credo che un ritorno fra di noi di Spinelli lo vedrebbe incredulo, smarrito. Cosa vogliono? L’Ungheria, per esempio, perché fa parte dell’Unione europea? Mi unirei a lui in questo interrogativo, e chissà, con la sua lucida intelligenza, forse potremmo venirne a capo. Perché io, da sola, ho grandi difficoltà a trovare una riposta che mi soddisfi. Che soddisfi il mio europeismo. Mi sento profondamente europea. Non solo perché è un dato di fatto, geografico. Ma perché sono convinta – e per questo sono europeista, significato distinto da europea – che quella di Spinelli non sia stata una infondata profezia, ma un programma politico di valore non inferiore alla nostra Costituzione.
’Europa di oggi è sotto i nostri occhi. Le opinioni sullo stato dell’Europa sono inevitabilmente plurali. Ma è necessario che dell’Europa si abbia presente anche il percorso storico, di assai lunga durata. Un percorso raramente presente nel discorso pubblico. E questo è un guaio. Perché l’Europa non è nata ieri, né, tantomeno, con l’euro. Tempo fa, in occasione di alcuni incontri, ho ricostruito un po’di questa storia. Ora rielaboro gli appunti, in attesa del 9 giugno.
Per avvicinarci al nodo, da dove viene l’Europa? Quale la sua storia?
Intanto, è stato un lento passare dal mito alla storia. Un mito che troviamo nell’ immagine di copertina di una recente edizione di un’opera del 1932 di Benedetto Croce Storia d’Europa nel secolo decimonono (Adelphi, 1993). Una fanciulla fenicia, di nome Europa, campeggia sul dorso di un toro bianco – Zeus mimetizzato – che approda a Creta, dando inizio a una storia che, oggi, definiremmo di colonizzazione. Zeus, dio greco per eccellenza, dà inizio, tramite la fanciulla orientale Europa, alla stirpe eccellente, che fonda l’Occidente ben prima dei pagani latini e dei cristiani, all’origine ebrei, e, in seguito, più romani dei romani. I romani ebbero un loro mito, il ratto delle Sabine, più provinciale dell’impresa di Zeus. Ma sempre di esercizio della forza sul corpo delle donne, si tratta. Una storia che persiste, ovunque, e per nulla mitica.
Un inizio ambiguo, almeno dal punto di vista simbolico. È l’Oriente che rende possibile l’Occidente? O è l’inizio della vocazione al dominio dell’Occidente? Come ambigua, o meglio, incompleta, fu la storia d’Europa scritta da Croce. Era facile parlare di Europa in progresso, limitandosi al diciannovesimo secolo, e non oltre. Dopo, prima guerra mondiale e dittature, già bene impostate e forti, all’inizio degli anni Trenta. Progresso? Fascismo come parentesi, così lo interpretò Croce. Lo spirito della libertà che si fa statico, non procede? Si prende una pausa? Piero Gobetti, giovane geniale, disse invece che il fascismo era l’autobiografia della nostra Nazione. Una intelligenza che il fascismo mise subito a tacere. Prima Giacomo Matteotti, nel 1924, poi Gobetti, nel 1926. Poi i fratelli Rosselli, nel 1937. Poi Gramsci, sempre nel 1937. Progresso?
Anche Federico Chabod cominciò a occuparsi di Europa all’inizio degli anni Trenta portando poi gli studi che stava compiendo nei suoi corsi universitari, fino alla fine degli anni Cinquanta. Non escludo che sia stato colpito da Achtung Europa! di Thomas Mann, una raccolta di saggi scritti a partire dal 1933, raccolta che contiene una dura condanna del nazionalismo nazista. Thomas Mann, nazionalista durante la prima guerra mondiale, diviene poi antinazista e forte critico del nazionalismo. All’arrivo di Hitler abbandona la Germania e Hitler gli tolse la cittadinanza tedesca nel 1934. Non volle ridiventare tedesco, mantenne la cittadinanza statunitense, avuta nel 1944. Dopo la guerra, scelse di vivere in Svizzera. Non volle scegliere una delle due Germanie, perché diceva che la Germania era una. Mann dice molto della storia d’Europa, della continua tensione fra libertà, diritti, guerre, dittature. Questa, in grande sintesi, è, ancora oggi, l’Europa, che, non dimentichiamolo, arriva fino ai monti Urali. Dato geografico. Ma Dostoevskij, Tolstoj, sono solo un dato geografico, o ci riguardano?
Federico Chabod, come Luigi Einaudi, furono europeisti ante litteram. Le lezioni di Chabod diventarono il libro postumo Storia dell’idea d’Europa, uscito nel 1961, un anno dopo la sua morte. Un libro che ebbe grande risonanza. Fu una mia lettura liceale, cosa per me rara, in quel tempo. La sua, di Chabod, è una storia delle idee di Europa, non di storia dell’Europa. Riprende il mito, dove ritroviamo i Greci, straordinari nella loro enorme e geniale presunzione. Che noi occidentali abbiamo ereditato in buona misura. Per i greci, Europa è Libertà, e Asia è Dispotismo. È la lunga durata delle idee, che pesano nel farsi del tempo storico molto più di quanto non si pensi. Il Cristianesimo, dice Chabod, ha lasciato un segno nel comparire del libero arbitrio. Idea assai controversa, in realtà, anche all’interno dell’universo cristiano, ma che è presente nella laicità di Machiavelli, di Voltaire, nell’Illuminismo, che invoca la libertà contro l’assolutismo. La Rivoluzione francese questo volle essere, libertà e uguaglianza. Ma partorì l’impero di Napoleone, e il suo tentativo di una grande Europa, da lui dominata.
Ma ecco, di nuovo, una eterogenesi dei fini, dopo Napoleone, perché compare la Nazione. Certo, per Giuseppe Mazzini, che concepì sia la Giovine Italia e che la Giovine Europa, l’idea era quella dell’Europa dei popoli fratelli. Per Lemonnier, con il suo Stati Uniti d’Europa, del 1872, la pace perpetua indicata da Kant come fine da raggiungere si sarebbe avvicinata, con l’unità europea. Ma, anche Chabod, qui si ferma. Croce, trattando dei fatti, e Chabod, delle idee, non arrivano al Novecento, dove la libertà è stata travolta dalle dittature e dalle guerre. Come spiegarlo?
È questo l’interrogativo da cui parte Altiero Spinelli, con i suoi compagni di esilio, a Ventotene. Spinelli, e i suoi compagni, non sono i soli a riflettere sull’Europa come necessità storica. Le dittature degli anni Trenta pongono interrogativi stringenti. Un altro esempio, oltre al già citato Thomas Mann. André Gide si occupa molto di Europa, fra le due guerre mondiali, quando i nazionalismi stavano affilando le armi. “Nessun paese d’Europa può più aspirare a un progresso reale della propria cultura isolandosi, né senza una collaborazione indiretta con gli altri paesi”. Una idea molto chiara e netta che Gide, uno degli scrittori più letti del suo tempo, fu ascoltata e apprezzata, anche al di fuori della Francia.
Anche l’isola di Ventotene, dove l’idea di una Europa unita intesa non come mito o sogno, ma come necessità, ebbe origine, ha una sua storia, non solo geografica. Isola o barca? Scrisse Ernesto Rossi alla moglie. Da qualunque parte mi volti, vedo il mare. Giocando sul mare che circonda l’isola, nel 2003 Berlusconi al settimanale The Spectator, allora diretto da Boris Johnson, disse “Mussolini, lì mandava in villeggiatura gli antifascisti”. Come dire, non li trattava male.
L’isola di Ventotene è luogo di confino già dall’età romana imperiale. Una delle prime confinate fu Giulia, figlia ribelle di Augusto, vittima di un padre padrone che, per salvare la Repubblica, la addomesticò. Addomesticò sia la figlia che la Repubblica, una pagina che parla da sola della forza del patriarcato che fonda la società umana fin dall’origine della storia. I Borboni continuarono poi la tradizione. Lì finivano gli oppositori politici. I Savoia non interruppero la tradizione. E il fascismo fu molto attivo nel confinare. Il fascismo destinò 250 luoghi, in Italia, ad essere confino. Uno dei più famosi, Eboli, dove Carlo Levi fece fermare Cristo, in un suo meraviglioso libro. Gli oppositori del fascismo erano o eliminati, o isolati.
Isolare. Accade a chi non obbedisce, a chi non rinuncia al pensiero critico. Ma, a volte, ben venga l’isolamento, invece della soppressione fisica, specialità dei totalitarismi e dei sistemi autoritari, nel passato e nel presente, che ci sta mostrando risvolti tragici non inferiori a quelli visti nel passato. Infatti, è accaduto che il pensiero critico abbia prodotto meraviglie, in luoghi di confino. È il caso dei Quaderni di Gramsci – nutrimento culturale e politico ancor oggi in ogni parte del mondo – e del Manifesto di Ventotene. Anche in questo caso, eterogenesi dei fini, nella quale ostinatamente continuiamo a sperare.
Infatti, il pensiero critico e libero è al centro del Manifesto, pensato e scritto a Ventotene, nel 1941. Dopo lungo studio e comuni scambi, di letture e pensieri. Molti libri arrivavano a Ventotene, portati da donne, che non furono solo postine, ma parteciparono al grande lavoro di studio e discussione.
Chi pensò e scrisse il Manifesto? Quali le loro storie? Credo che esaminare, per quanto possibile, da vicino le vite, tutte, e in questo caso le loro, sia una operazione storica indispensabile. Non si nasce con uno stampo prefissato, ma si diventa quello che si diventa, attraversando, in modi imprevedibili, il tempo storico che ci tocca vivere. Erano una minoranza di liberi pensatori, uomini e donne. Giovani o molto giovani. Una generazione che il fascismo aveva fermato e recluso e isolato. Socialismo liberale e Azionismo, erano la loro prevalente matrice culturale. Ernesto Rossi era nato nel 1897, Ada Rossi nel 1899, Altiero Spinelli nel 1907, Eugenio Colorni nel 1909, Ursula Hirschmann nel 1913.
Spinelli, giovane comunista, era in carcere dal 1927. Aveva vent’anni. Dal 1937 fu confinato, prima a Ponza, poi a Ventotene. Si distaccò dal Partito comunista quando ebbe notizia delle purghe staliniane. Nel 1941, gli uomini, e le donne che fanno loro visita – Ada, compagna di Rossi, Ursula, compagna di Colorni – decidono di scrivere di Europa. Luigi Einaudi invia ai confinati libri federalisti degli autori già citati. Forse anche Achtung Europa!, tradotto in francese da Gide.
Ernesto Rossi era molto vicino a Salvemini, che lo allontana da inziali giovanili simpatie fasciste. Collabora con Piero Calamandrei e Carlo Rosselli nella rivista Non Mollare, periodico antifascista clandestino. Fu poi dirigente di Giustizia e Libertà. Scontò venti anni di carcere. Fece dopo la guerra parte del governo Parri, durato pochi mesi. Collaborò poi a Il Mondo di Pannunzio e aderì al partito radicale. Eugenio Colorni era di Giustizia e Libertà e socialista. Ebbe un ruolo decisivo, di pensiero e di azione, nella genesi e nella storia del Manifesto. In carcere e confino dal 1938 al 1943. Fino al 1941 a Ventotene, poi a Melfi. Evade da Melfi ed è clandestino a Roma. Viene ucciso a Roma dalla banda Koch nell’agosto del 1944, a pochi giorni dalla liberazione della città.
Ma, prima, riesce a pubblicare Il Manifesto, che era “evaso” con lui da Melfi. Colorni lo pubblica in carta stampata a Roma, il 22 gennaio 1944, in 500 copie. Una vera epopea, che meriterebbe un poema epico. Molto interessante la storia delle donne. Ursula tedesca, socialista, ebrea, in fuga dalla Germania. A Parigi incontra l’antifascista Colorni, il primo marito. Dopo la morte di Colorni, il secondo marito sarà Altiero Spinelli. Ada aveva casualmente lo stesso cognome del marito, che aveva sposato quando Ernesto era in carcere.
Donne che partecipano ai lavori e alle discussioni che precedono la scrittura del Manifesto, scritto prevalentemente da Spinelli, in parte da Rossi, ma del tutto condiviso in ogni sua parte. Colorni pubblicherà appunto il Manifesto, con una introduzione importantissima. Le donne possono entrare e uscire da Ventotene, perché non sono confinate, e portano in terraferma ogni volta parti del testo del Manifesto, mano a mano che procedeva, scritto a matita sulle cartine delle sigarette. Certo, anticipano quello che sarà il lavoro delle staffette. Ma fecero parte attiva del gruppo, un gruppo molto pensante, e le donne del gruppo pensavano, con i loro mariti e compagni, e ragionavano di antifascismo.
Ma prima della pubblicazione del Manifesto – inizialmente diffuso soprattutto in Lombardia – ci fu un evento di portata storica. Il Movimento Federalista Europeo, al centro delle ragioni del Manifesto, fu fondato a Milano da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e altri antifascisti, il 27 e 28 agosto 1943, prima dell’8 settembre. Infatti, subito dopo la caduta di Mussolini, Spinelli e gli altri lasciano il confino e si ritrovano a Milano. Il Movimento fu fondato su tesi politiche che sintetizzano il Manifesto, prima ancora della sua pubblicazione cartacea.
Quale progetto di Europa delineava il Manifesto, molto citato e poco letto? Poco letto, lo stesso destino della nostra Costituzione. È un progetto sintetizzabile in poche parole. Federare i paesi europei, eliminando l’assoluta sovranità degli Stati, per superare i nazionalismi con un grande disegno di riforma sociale, unica garanzia di fiducia nelle Istituzioni, e per assicurare la pace. Il nesso fra nazionalismi e guerra è esplicito. Scritto nel 1941 o oggi?
Al cuore del Manifesto, infatti, vi è il rovesciamento dell’idea di nazionalismo. L’internazionalismo, importante ideale dei movimenti socialisti e anarchici, già a partire dal secondo Ottocento, non può essere una efficace risposta alla sovranità assoluta degli Stati, che sono anarchici in politica estera, non riconoscendo alcuna autorità superiore. Anarchia e guerre, per prevalere gli uni sugli altri. Se gli Stati europei vogliono mettere fine alle guerre che da secoli li attraversano, dovranno federarsi e avere alcuni pilastri in comune. Un unico esercito, un’unica politica estera, un’unica moneta, l’abolizione delle barriere doganali, una libera emigrazione all’interno dell’Europa e Istituzioni elettive a suffragio universale.
Nel Manifesto inoltre, compare quella che subito dopo la prima guerra mondiale era stata l’indicazione di Keynes. Non criminalizziamo il popolo tedesco, non vendichiamoci. Keynes non fu ascoltato. Gli enormi danni di guerra che i vinti dovevano ai vincitori furono l’arma impugnata da Hitler per vincere. Ora, pensano e scrivono Spinelli e i suoi compagni, dobbiamo fare il contrario. Costruire l’amicizia fra i vincitori e i vinti. Solo una Europa unita può invertire una continua storia di guerre.
Questa avanguardia europeista era consapevole di indicare un cammino dai mille ostacoli. Un commino che richiedeva una rivoluzione culturale e politica, certamente non armata. Ed è questa la parte meno nota del Manifesto. Una parte rimossa, presente solo agli studiosi, non ripresa fra le varie e buone ragioni del nostro convinto europeismo. Non ci sarà Europa unita senza una profonda riforma della società, senza che riprenda il percorso storico contro la disuguaglianza che il fascismo ha interrotto. La rivoluzione europea dovrà essere socialista. Riforma agraria, scuola pubblica, nessuno costretto dalla miseria a vendersi, libertà di stampa e indipendenza della Magistratura. È il programma di un partito socialista che propone una grande alleanza fra mondo del lavoro e intellettuali. Un programma che porta con sé il lavoro politico compiuto negli anni della clandestinità dal mondo antifascista, nelle sue varie componenti, sicuramente plurali, a volte conflittuali. Ma uguaglianza, libertà e giustizia sociale erano il tessuto connettivo della storia antifascista che, per non fallire, aveva bisogno di una Europa Unita. Come convincere il mondo del lavoro che l’Europa unita era la strada per riforme sociali radicali? Grande questione, ancora oggi aperta.
Molte parti del programma del Manifesto le troviamo scritte nella nostra Costituzione. Compreso il ripudio della guerra e la limitazione della sovranità assoluta dello Stato. Uguaglianza e giustizia sociale hanno avuto un percorso accidentato, in Italia e in Europa, molto al disotto delle indicazioni del Manifesto e della Costituzione. Altiero Spinelli ha dedicato tutta la sua vita all’unità europea. Lavorando anche nel Parlamento italiano. Fu in più legislature eletto dal Pci nel gruppo della Sinistra Indipendente. Il Pci lo candidò come indipendente al Parlamento europeo, nelle prime elezioni del 1979, dove rimase fino alla sua morte, nel 1986. Fu, la sua candidatura – Enrico Berlinguer ebbe uno sguardo “lungo” anche in questo caso – non solo giusta, ma necessaria. Spinelli è definito, a Strasburgo e a Bruxelles, padre dell’Unione Europea. Anche Eugenio Colorni, è un padre, come Ernesto Rossi, scomparso nel 1967. Anche Ursula e Ada sono madri. Ursula ha scritto una bellissima autobiografia Noi senza patria. Ebrea errante. Europea errante.
L’Europa di oggi. Avrei bisogno di questi padri e di queste madri per fare il punto. Cosa ci dite di questa Europa? Europa fortezza, che respinge umani come vuoti a perdere. Nazioni sovraniste che cercano di divorare il cuore del Manifesto, appropriandosi dell’Europa. È una Europa di pace? La pace è al primo posto? Posso immaginare le loro risposte, rileggendo il loro Manifesto scritto a Ventotene, dove non erano in villeggiatura.
Il 9 giugno andrò a votare. Come scegliere? Cercherò i programmi – pressoché sconosciuti – delle liste non sovraniste. Sceglierò quella che più si avvicina al Manifesto di Ventotene.
Quali scelte farà il popolo europeo? Quale sua realistica fotografia uscirà dalle urne del 9 giugno? Vincerà la paura, l’egoismo, la fortezza che vuole purificarsi? O vinceranno le idee di Spinelli e dei suoi compagni, delle sue compagne, idee in buona misura ancora in sospeso? Faccio il tifo toto corde per loro, sapendo che c’è ancora molto lavoro da fare.