L’inqualificabile censura della Rai meloniana ad Antonio Scurati costituisce l’ennesimo tassello, particolarmente rivelatore oltre che grave, della costruzione di un regime antidemocratico. L’ennesimo passo della marcia ex-neo-post-filo-parafascista sulle istituzioni pubbliche di ogni tipo e funzione, culturali, economiche e tecniche in primis, usurpate e distribuite secondo cameratismo di Colle Oppio e assenza di meriti. Marcia di colonizzazione in progress che troppi si ostinano a non vedere, o a minimizzare colpevolmente, poiché è ormai evidente, per tabulas, per reiterata e costante corroborazione empirica, che corrisponde al DNA inestirpabile di questa sciagurata coalizione di governo. Di cui ho nei giorni scorsi ricordato tra l’altro, in un assordante silenzio, la nomina a presidente della Biennale di Venezia di uno scrittore – letterariamente assai mediocre – che in ben due romanzi si è abbandonato ad osannante apologia verso i nazisti, una paracadutista delle Ss in un caso, molto bionda ed eroica, ovviamente, e il maresciallo Göring, vice di Hitler, nell’altro.
Giorgia Meloni ha aggiunto alla censura anche lo scherno, l’oltraggio e la diffamazione personale nei confronti dello scrittore, pubblicando sul proprio sito, a dimostrazione che non censura nessuno, il testo censurato dai suoi scherani Rai. Come se i milioni di persone che seguono un programma televisivo, e in questo caso NON potranno ascoltare Scurati, potessero essere rimpiazzati dai due gatti e mezzo dell’account social meloniano. Poteva naturalmente dare ordine che Scurati andasse in onda come previsto, ma Giorgia Meloni è troppo rispettosa dell’autonomia in orbace dei dirigenti Rai per averlo anche solo pensato.
Giorgia Meloni voleva presentare Antonio Scurati non come uno dei nostri massimi scrittori, ma come un mero agit-prop della sinistra (quale?), avido soprattutto di danaro. Per questo ha voluto sottolineare la cifra del compenso, che naturalmente fa effetto al cittadino medio per il quale 1.500 euro possono essere lo stipendio di un mese, stabilita dalla Rai con l’agente dello scrittore e assolutamente in linea con le cifre che la Rai sborsa per tali prestazioni. Era mai venuto in mente al presidente del consiglio dei ministri Meloni di sbandierare la cifra dei compensi di Bruno Vespa quando va a omaggiarlo per la presentazione del suo libro annuale? (En passant, Giorgia Meloni ha voluto anche gonfiare la cifra pattuita dalla Rai con l’agente di Scurati, 1.800 anziché 1.500, fatto trenta perché non fare trentuno?).
La diffamazione scatta quando, articolo 595 c.p., si offende l’altrui reputazione. Cosa che Giorgia Meloni nei confronti di Scurati ha svergognatamente fatto. “Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni”. Giorgia Meloni conosce a menadito l’articolo 595 visto che lo ha invocato per trascinare in tribunale Luciano Canfora (udienza il 7 ottobre), reo di averla tacciata di “neonazista nell’anima”.
Presentare uno dei massimi scrittori italiani come un volgare, e avido di danaro, agit-prop di una forza politica, rientra nel diritto di cronaca o di opinione, discriminanti per le quali l’articolo 595 non scatta, o resta offesa della reputazione e basta? Scurati ovviamente si è ben guardato dal querelare Giorgia Meloni, si è limitato a risponderle come meritava, con sovrano e argomentato disprezzo.
Ma la differenza dei comportamenti, oltretutto in abissale asimmetria di potere, conferma l’irrefrenabile pulsione di Giorgia Meloni e dei suoi camerati di Colle Oppio a voler tappare la bocca di ogni voce scomoda per i loro disegni di regime, e a cancellare l’antifascismo come realtà storica da cui scaturisce la Costituzione repubblicana, cui pure solennemente e insinceramente giurano fedeltà quando si insediano al governo.
La censura contro Antonio Scurati, ennesimo miserabile comportamento di prepotenza di chi anela al regime, questa volta ha provocato una reazione del mondo della letteratura, con un tempestivo appello di Nicola Lagioia che invita i suoi colleghi “a farsi sentire”. E aggiunge: “Soprattutto quelle e quelli che, rispetto a questo governo, pur ritenendolo per certi versi un governo pericoloso, hanno preferito nell’ultimo anno e mezzo parlare poco o non parlare affatto. Per (comprensibile) quieto vivere, per (a volte legittima) paura, per non sentirsi usurati, per stanchezza, per non sporcarsi le mani (mentre tutto intorno si fa sporco)”. Concludendo: “Ma quando il contesto si fa così meschino da suggerirti per quieto vivere di tacere, è proprio allora che bisogna parlare”. Nicola Lagioia ha ragione da vendere. E molti hanno rilanciato il suo appello.
Mi permetto perciò una modesta proposta: perché non passare dalle parole ai fatti, rendendo l’indignazione più tangibile, “performante” come usa dire oggi, e visibilissima a livello internazionale? Basterebbe che tutti gli scrittori italiani si rifiutassero di andare alla Buchmesse di Francoforte, dove l’Italia è quest’anno ospite d’onore, in dissenso dal governo italiano che tramite le sue nomine sceglie chi invitare. Proprio Antonio Scurati lo ha già fatto. Se lo facessero tutti, la marcia di Giorgia Meloni e dei suoi ex-neo-post-filo-para fascisti troverebbe almeno una pietra d’inciampo clamorosamente internazionale.
Naturalmente per uno scrittore rinunciare alla vetrina della Buchmesse è un sacrificio, anche non da poco. Piuttosto piccolo, tuttavia, rispetto a quello dei combattenti della libertà di cui si vuole il 25 aprile cancellare la memoria, a cui noi tutti dobbiamo i diritti di cui oggi godiamo e che questo governo vuole progressivamente imbavagliare, amputare, sopprimere, come ha ricordato nella sua pagina/striscia sul Fatto quotidiano di domenica Stefano Disegni, con angosciante, dolente, lancinante ironia.