Come ampiamente previsto, la discussione parlamentare del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) del Governo Draghi si è trasformata in una cerimonia celebrativa da far invidia al governo nord-coreano.
Un intero arco parlamentare, trattato a pesci in faccia dal ‘governo dei migliori’ al punto da aver ricevuto il testo definitivo del piano un paio d’ore prima dell’inizio della discussione, si è allineato con dichiarazioni imbarazzanti e prive di nessi logici.
Una per tutte, le parole del neo segretario Pd, Enrico Letta: “Verde, sociale, inclusiva, competitiva, solidale. Questa l’Italia che potremo avere se diventerà realtà il PNRR presentato in Parlamento da Draghi”.
Inutile spiegare a Letta, dizionario alla mano, l’antagonismo tra la parola “competitiva” (‘che tende a competere, che è e vuol essere in competizione’) e la parola “solidale” (‘che instaura rapporto di fratellanza e di reciproco sostegno fra i componenti di una collettività’).
D’altronde, anche allo stesso Draghi andrebbe regalato un dizionario, dopo aver letto quanto scrive nell’introduzione al Piano: “Un fattore essenziale per la crescita economica e l’equità è la promozione e la tutela della concorrenza. La concorrenza non risponde solo alla logica del mercato, ma può anche contribuire ad una maggiore giustizia sociale”.
Salvo poi aggiungere poche righe sotto: “Il Governo s’impegna a presentare in Parlamento il disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza (e) si impegna a mitigare gli effetti negativi prodotti da queste misure (..). Quanto più si incoraggia la concorrenza, tanto più occorre rafforzare la protezione sociale”.
Forse basterebbe liquidare l’intero PNRR con un unico dato lessicale: nelle 337 pagine del piano le parole “competizione” e “concorrenza” ricorrono 257 volte, la parola “diseguaglianze” 7 volte.
Di fatto, l’intero Piano, dentro il quale, sempre secondo il Presidente del Consiglio, “non ci sono solo numeri e scadenze, ma le vite degli italiani e il destino del Paese” è fortemente ancorato all’impianto della dottrina liberista, per la quale il pubblico deve mettersi al servizio dell’economia di mercato, dalla cui competitività si misura il benessere del Paese.
Da non credere. Come se non fosse stato proprio questo meccanismo a portarci alla drammatica crisi resa evidente dall’esplosione della pandemia.
Basta leggere l’introduzione al PNRR per rendersene conto. Anche queste sono parole di Draghi: “La pandemia si è abbattuta su un Paese già fragile dal punta di vista economico, sociale, ambientale (..) tra il 2005 e il 2019 il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è salito dal 3,3 per cento al 7,7 per cento della popolazione, prima di aumentare ulteriormente nel 2020 fino al 9,4 per cento (..) l’Italia è il Paese dell’UE con il più alto tasso di ragazzi tra i 15 e i 29 anni non impegnati nello studio, nel lavoro o nella formazione (NEET) (..) il tasso di partecipazione delle donne al lavoro è solo il 53,8 per cento, molto al di sotto del 67,3 per cento della media europea. E questi problemi sono ancora più accentuati nel Mezzogiorno (..) l’Italia è particolarmente vulnerabile ai cambiamenti climatici con il 12,6 per cento della popolazione che abita in aree classificate ad elevata pericolosità di frana o soggette ad alluvioni”.
E’ stata provocata da uno spropositato ruolo del pubblico questa situazione?
E’ sempre il nostro Draghi a rispondere di no. Dice infatti il PNRR: “Nell’ultimo decennio l’evoluzione della spesa pubblica, con il blocco del turnover, ha generato una significativa riduzione del numero dei dipendenti pubblici in Italia. La Pubblica Amministrazione italiana registra oggi un numero di dipendenti (circa 3,2 milioni in valore assoluto) inferiore alla media OCSE (13,4 per cento dell’occupazione totale, contro il 17,7 per cento della media OCSE, secondo i dati del 2017)”. Non solo. “In 10 anni gli investimenti in formazione dei dipendenti pubblici si sono quasi dimezzati, passando da 262 milioni di euro nel 2008 a 164 milioni nel 2019: una media di 48 euro per dipendente”. Il tutto affiancato da una drastica riduzione degli investimenti pubblici, fin quasi al loro azzeramento.
Draghi la racconta come un dato oggettivo, ma tutti sappiamo che l’azzeramento della funzione della Pubblica Amministrazione è stata il frutto di scelte ben precise, dettate dai vincoli di Maastricht, dal patto di stabilità e dal Fiscal Compact; ovvero dalle misure di austerità applicate utilizzando la trappola ideologica del debito pubblico per favorire le privatizzazioni e la messa sul mercato di beni comuni e servizi pubblici che prima ne erano esclusi.
Ricapitolando: l’Italia è un paese allo sfascio, pesantemente vulnerabile dal punto di vista ambientale, drammaticamente diseguale dal punto di vista sociale e con un settore pubblico ridotto ai minimi termini ed espropriato della sua primaria funzione pubblica e sociale.
Come pensa di affrontare questa situazione il piano di Draghi?
Attraverso la rimozione delle barriere all’entrata dei mercati e promuovendo “dinamiche competitive finalizzate ad assicurare anche la protezione di diritti e interessi non economici dei cittadini, con particolare riguardo ai servizi pubblici, alla sanità e all’ambiente”.
Mentre le persone durante la pandemia hanno vissuto sulla propria pelle (e 120.000 di queste ci hanno lasciato) i disastri sanitari, sociali e ambientali prodotti dall’idea di società fondata sulla solitudine competitiva, sul profitto e sulle privatizzazioni, il pifferaio Draghi suona la sinfonia del mercato e partiti politici di ogni colore, mass media di ogni collocazione lo seguono incantati.
Draghi racconta di un PNRR che porterà un bastimento carico di miliardi in cambio di qualche riforma, la realtà dimostra che il PNRR è un piano che ridisegna il Paese con le riforme in cambio di qualche soldo. I 205 miliardi da investire in sei anni sono inferiori a quanto già speso dal governo italiano nei primi 15 mesi di pandemia (210 miliardi), mentre le riforme –condizio sine qua non per averli- sono finalizzate a stabilizzare un modello fondato sulla predazione della natura, sull’espropriazione sociale e sulla precarietà.
La ripresa di cui si parla è il rilancio dell’economia dei profitti. La resilienza che si auspica è la rassegnazione che si chiede alle persone.
A tutto questo va aggiunto che questo PNRR blinderà qualsiasi scelta politica -elezioni o meno- per i prossimi sei anni. Come ha esplicitato il commissario europeo Paolo Gentiloni, il PNRR è come un contratto tra l’Unione europea e ciascuno stato membro e “probabilmente due volte l’anno, la Commissione europea dovrà decidere se erogare la parte di finanziamento che il paese aspetta” e lo farà, oltre che sulla base della spesa sostenuta, “sul rispetto degli impegni presi nelle riforme indicate nel Piano”.
Era chiaro sin dall’inizio come la pandemia costituisse uno spartiacque e ponesse tutte e tutti di fronte a un bivio: proseguire con un modello capitalistico dentro un quadro molto più autoritario o dichiararne la totale insostenibilità sociale e ambientale e intraprendere la sfida per un’alternativa di società.
Il PNRR del governo Draghi ha imboccato senza indugi la prima direzione.
Centinaia di realtà associative e di movimento hanno intrapreso con determinazione la seconda, avviando il percorso di convergenza per la “Società della cura”.
La partita è aperta è in gioco c’è il diritto al futuro. Nessuno pensi di poterla stare a guardare.