Chiuse le urne referendarie, si è alzato il sipario sul prevedibile copione del chi ha vinto e chi ha perso, come e perché. La destra in coro ovviamente esalta un rafforzamento del governo Meloni. Certo, l’obiettivo di fondo è stato mancato. Ma la forza/debolezza di un governo si misura su quel che è e quel che fa, non sull’esito di un evento referendario pur significativo.
Forse la stagione ora conclusa consegna invece una indicazione: la destra al potere teme il voto popolare. Già lo suggerivano i mugugni di Calderoli sulle firme raccolte “dal divano’’ per l’autonomia differenziata. Una conferma è venuta dal sospiro di sollievo collettivo che la destra ha esalato quando la Corte costituzionale, con una sentenza sbagliata e non condivisibile (10/2025), ha dichiarato inammissibile il quesito referendario abrogativo della legge 86/2024, sostenuto da una inattesa valanga di firme.
Ho proposto di riprendere subito la via referendaria, scrivendo su queste pagine per esteso un nuovo quesito riformulato in base alla sentenza della Consulta 192/2024, di parziale illegittimità della legge 86/2024 (Calderoli). La proposta non ha avuto fortuna. Se fosse stata accolta, ne avrebbe tratto beneficio la campagna per i cinque referendum al voto. L’esito referendario, invece, viene assunto dalla destra a sostegno della propria arroganza sul tema delle riforme. Si vorrebbe accelerare su giustizia e premierato. L’autonomia differenziata ha già visto l’approvazione (unanime) in Consiglio dei ministri del ddl Calderoli sulla delega legislativa per i livelli essenziali delle prestazioni, e la sepoltura senza onori delle molteplici indicazioni date dalla Consulta nella sent. 192/2024. Ora al pacchetto già noto si aggiunge l’ipotesi di una riforma del referendum.
L’ispirazione di fondo è rendere più difficile per il popolo sovrano l’esercizio di questo fondamentale strumento di democrazia diretta. L’obiettivo traspare dal massiccio aumento delle firme richieste, che giungerebbero a un milione. Solo in parte la maggiore difficoltà sarebbe bilanciata dalla proposta di diminuire il quorum strutturale. Una prima ipotesi lo porterebbe al 40% degli aventi diritto, e una seconda, leggermente più favorevole, lo collocherebbe alla metà più uno calcolata sull’affluenza nelle ultime politiche. In ogni caso, i divani evocati da Calderoli affiorano come incubo pervasivo e contagioso.
Ovviamente la scrittura dell’art. 75 Cost. nel 1948 vedeva un contesto molto diverso da quello attuale. Ma va oggi considerato che i paesi di democrazia cd liberale stanno conoscendo una crisi cui si riscontrano – sia pure con misura e modalità variabili – elementi sostanzialmente comuni: fragilità dei soggetti politici organizzati e di massa, marginalità dei Parlamenti, dominanza degli esecutivi nei processi politici e negli equilibri costituzionali, indebolimento dei sistemi di checks and balances. In taluni paesi è netto lo scivolamento verso forme di “democratura’’, come è avvenuto ad esempio con l’Ungheria, e come è corretto pensare stia drammaticamente avvenendo negli Usa di Trump. Il nostro paese non può ritenersi vaccinato e immune. Basta considerare la sinergia tra le riforme e le politiche della destra, che investono la giustizia, il rapporto con il Parlamento, gli organi di garanzia, la legge elettorale, insieme a una stretta securitaria in chiave di panpenalismo populista. È un contesto in cui gli istituti di democrazia diretta sono strumento prezioso di bilanciamento. Dei due fondamenti delle democrazie – rappresentanza politica e democrazia diretta – se il primo si indebolisce è bene che il secondo si consolidi.
Rafforzare gli strumenti di democrazia diretta è possibile, e una proposta in tal senso sarebbe un elemento di competitività delle opposizioni verso l’attuale maggioranza. In un recente seminario presso il think tank Astrid è stata svolta una interessante relazione secondo cui la tecnologia della blockchain può risolvere i problemi opposti da alcuni alla realizzazione del voto online, che potrebbe essere una risposta efficace all’astensionismo elettorale ormai strutturale e permanente. Si potrebbe fare senza revisione costituzionale. È interessante anche la proposta, presentata e poi abbandonata al tempo del Conte-1, di collegare la proposta di legge di iniziativa popolare a un referendum propositivo. Per questo bisognerebbe metter mano alla Costituzione.
Ne parleremo. Ma intanto ci insegue il ricordo di Meloni che voleva vendere agli italiani l’elezione diretta del premier con lo slogan “decidete voi, o il Palazzo?’’. Era pubblicità ingannevole di un prodotto avariato. Ora con lo spot “vado al seggio e non voto’’ ci dice di volere sudditi, non cittadini. Finisce male quando si scelgono le cattive compagnie come amici del cuore.