Tra i tanti problemi di una sinistra italiana già frammentata e scolorita, ce n’è uno particolarmente grande: la sua identità. O meglio, l’incapacità di essere se stessa. Indipendentemente dalle contingenze. Quando ai tempi del secondo governo Berlusconi si mise in discussione l’articolo 18, il popolo di sinistra, composto da sindacati, partiti di opposizione, intellettuali, artisti, semplici cittadini, scese in piazza. Più di un milione di persone, una pressione che costrinse l’allora premier a desistere. Quando, negli anni successivi, i governi di sinistra non riuscirono a sottrarsi alla loro nuova vocazione neoliberista, continuando a ignorare i temi legati al mondo del lavoro, il suo popolo non fece nulla più che esprimere qualche lamentela o critica. I sindacati confederali rimasero piuttosto morbidi e non si registrarono particolari mobilitazioni di fronte al precariato crescente e alla flessibilità imperfetta, priva di ammortizzatori sociali e colma di ingiustizie.
Ma il peggio doveva ancora arrivare e lo abbiamo vissuto ai tempi del governo Renzi, quando l’articolo 18 è stato abolito e con esso il sistema di tutele che riguardava una parte dei lavoratori italiani. Accanto ai sindacati di base, delle tre confederazioni solo la Cgil scese in piazza e senza troppa convinzione. Insomma, quella timida resistenza non si avvicinò neanche lontanamente ai numeri di quella mostrata contro l’avversario Berlusconi. Colpa della frammentazione, si dirà, delle diaspore, dello sgretolamento che ha prodotto fughe verso altre esperienze politiche, verso i 5 stelle più che verso i partitini della sinistra cosiddetta “radicale” (distinzione che fa rabbrividire). Forse, ma qui il tema è molto più complesso e lo possiamo comprendere meglio oggi.
Il nemico numero uno è Matteo Salvini, detestato a ragione per i suoi metodi brutali, per la sua inadeguatezza politica, per la compromissione evidente del suo partito con sistemi ambigui e poteri oscuri. Quel Matteo Salvini che ha sdoganato il razzismo peggiore, gli istinti più bassi del popolo italiano, costruendo, insieme al suo staff di comunicatori malvagi, una retorica pericolosa, che condanna l’ultimo a colpi di slogan, partorendo violenza e odio.
Ma come si combatte Matteo Salvini da sinistra? Finora l’unica soluzione partitica è stata quella di mettere insieme alcune forze tra loro antitetiche e farle governare insieme per fermare il pericolo sovranista che minaccia l’Italia grazie al suo crescente consenso. Basterà? No. Perché quello che manca ai partiti che si richiamano al socialismo europeo è una vera identità. Il Pd e LeU sono tutto fuorché forze di sinistra riconoscibili. Hanno più la fisionomia di una vecchia DC, ma senza l’orgoglio e le capacità politiche della migliore DC. Quell’orgoglio che permette di rimanere fedeli ai propri valori, correggendo il popolo, educandolo e non assecondando ogni suo volere e istinto. È una questione di statura. Morale e politica. Il problema però non sono solo i partiti e i rappresentanti politici. Il problema è la cittadinanza politica, il popolo che afferma di essere di sinistra e che oggi è confuso, depresso e a tratti persino rassegnato. Perché? Prendiamo come esempio la questione migranti.
Per anni (chi scrive polemizzò con Livia Turco già 10 anni fa), i partiti maggioritari a sinistra sull’immigrazione hanno avuto una posizione mediana. Pur cercando di distinguersi dalla destra nei toni e in alcune visioni, così come nel linguaggio su solidarietà ed accoglienza, alla fine hanno cercato ugualmente di superare la destra sul tema sicurezza, ostentando i propri sceriffi per non sentirsi da meno. Negli ultimi anni poi hanno osato perfino di più, togliendosi la maschera. Minniti è stato il pioniere, il “coraggioso”, l’uomo che ha scelto di ingranare la marcia e spingere sull’acceleratore del sorpasso. Prima ha fermato il soccorso in mare e ha ostacolato le ong, dopo aver gettato su di esse sospetti infondati (insieme alla procura catanese di Zuccaro). Quindi ha ridotto da tre a due le possibilità di ricorrere contro il diniego di asilo politico e protezione umanitaria, oltre a imprimere una stretta su residenze e domicili per i richiedenti stessi. In più è proprio Minniti ad aver colpito per primo importanti e positivi esperimenti di accoglienza, come quello di Riace.
A ciò si aggiungano gli accordi con la Libia, con la guardia costiera di Tripoli, quella piena di trafficanti, alla quale abbiamo regalato motovedette e formazione degli equipaggi. L’obiettivo? Far diminuire gli arrivi per poter sventolare le cifre (così come ha poi fatto insieme a Gentiloni) davanti al popolo intero, sia il proprio sia quello altrui, facendo finta di non conoscere la portata funesta di quei numeri. Facendo finta di non sapere cosa accadesse in Libia. Minniti ha iniziato a scavare il burrone nel quale Salvini ha fatto precipitare la civiltà di questo Paese. Ha preso a colpi di piccone la solidarietà, lasciando poi al suo successore il compito di finire il lavoro. E il Pd e gran parte del suo popolo e degli opinionisti di sinistra hanno applaudito Minniti, pensando persino di proporlo come segretario o candidato premier dopo la debacle di Renzi. Tutti, compresi quelli che dopo hanno cercato di distinguersi.
Inutile girarci attorno. È stato Minniti, con toni meno rozzi, ad avviare la stagione che ha condotto ai porti chiusi e all’osceno spettacolo dei disperati lasciati in mare. Oltre che allo smantellamento del sistema di accoglienza, compreso quello virtuoso, e alle restrizioni per i migranti già presenti nel nostro territorio che volevano mettersi o restare in regola. Oggi, il governo tanto osannato da chi voleva liberarsi di Salvini (dimenticando però Di Maio e gli altri complici politici), con la Lamorgese, che di Minniti fu capo di gabinetto, sta operando in netta continuità. Non solo non si toccano i decreti sicurezza, né si rimette in piedi un sistema di accoglienza oggi pressoché assente, ma si lascia la gente per giorni in mezzo al mare e si confermano gli accordi con la Libia. Quel famigerato memorandum viene riconfermato nonostante le inchieste, le immagini, le testimonianze, la vergognosa prova di rapporti tra Stato italiano e mafia libica, tra Stato italiano e trafficanti. Una prova sulla quale il silenzio di Minniti e Gentiloni è inaccettabile.
Così come è inaccettabile che chi osannava Carola Rackete, chi manifestava per la Sea Watch, chi attaccava giustamente Salvini, oggi non dica nulla. Nessuna manifestazione, nessun attacco, nessuna satira, né striscioni, niente. Il popolo di sinistra evidentemente ha un problema enorme che non appartiene alla tradizione del pensiero di ispirazione marxista o gramsciana: non sa criticare se stesso. Se il nemico è interno, prova imbarazzo e fastidio per chi osa puntare il dito sulla parte amica e sulle sue vergogne. Non lo ritiene possibile. È accaduto spesso e accadrà ancora. Anche adesso che, come dice Giulio Cavalli in un suo ottimo editoriale su Left, gli alfieri del centro sinistra possono anche “smettere di fingere”. Ha ragione Giulio quando invita i membri delle forze di centrosinistra al governo a non avvicinarsi mai più, con le loro mani sporche di sangue, al tema dei migranti e dell’accoglienza. Non ne hanno più diritto, ora che sono apertamente complici di un genocidio.