Mattarella ha detto sì o no all’autonomia differenziata? A leggere la stampa si può rimanere perplessi. Ma va riconosciuto che il Presidente ha detto tutta la verità, e nient’altro che la verità. Ci sono letture dell’autonomia conformi a Costituzione, letture incostituzionali, e persino letture eversive. Il punto è che sembra oggi prevalere una lettura solo in parte riconducibile alla prima categoria.
Così, non c’è dubbio che l’autonomia differenziata sia in Costituzione, e quindi sia legittimo attuarla. Ma è altrettanto ovvio che sia inserita nella più complessa architettura – che non può stravolgere – disegnata dal Titolo V, per di più in un contesto nel quale rimane presidiata l’eguaglianza, inclusa quella sostanziale di cui all’art. 3, comma 2. Ha ragione Mattarella quando afferma che la garanzia dei diritti civili e sociali e le esigenze perequative “non costituiscono limiti o correttivi alle autonomie ma ne sono caratteri propri”. O quando segnala che “le diseguaglianze tra le persone e i territori costituiscono le più gravi fonti di inefficienza economica”, e ricorda che l’Europa ci chiede di accelerare l’infrastrutturazione del Paese “colmando i divari, a partire da quello tra il Nord e il Meridione”.
Nessun problema da Mattarella. Problemi seri, invece, tra chi lo ascoltava. L’accelerazione tentata da Calderoli sull’attuazione dell’art. 116.3 Cost. nasce anche dalla stagione congressuale della Lega, dalle turbolenze anti-Salvini e dal ritorno alla originaria vocazione separatista di “sindacato del Nord”. Ma la indisponibilità a una “equa condivisione del malessere” manifestata a margine dell’incontro del 2 dicembre tra Calderoli e Zaia ci dice quanto siano lontani dall’assumere come obiettivo il superamento delle diseguaglianze e in specie del divario territoriale Nord-Sud.
Ridurre diseguaglianze e divari produrrebbe una condivisione “equa”, ma di “malessere”. Dovendosi dunque intendere che il “benessere” si persegue negando quella riduzione, o limitandola al livello minimo indispensabile. A cosa? Forse a prevenire proteste e tumulti. Tradotto nel divario Nord-Sud, significa tenere Lep e perequazione al livello più basso che consenta al Mezzogiorno di sopravvivere, ma non di crescere e mettersi alla pari con il resto del paese.
Siamo all’ennesima edizione della “locomotiva del Nord”, sulla quale vanno concentrate le risorse disponibili perché è la sola parte del paese che può accelerare per reggere la competizione europea e globale. Il Sud non può o non sa farlo. Quindi il divario Nord-Sud è un male necessario, che va contrastato ma senza esagerare. Diversamente, si produrrebbe “malessere” anche per chi potrebbe stare meglio.
Ecco una lettura incostituzionale dell’autonomia. Questo ci aiuta a capire perché dai famigerati “pre-accordi” del 28 febbraio 2018 tra Lombardia (Lega), Veneto (Lega), Emilia-Romagna (Pd) e il governo Gentiloni (Pd), sia calata sulle trattative tra il ministero delle autonomie e le regioni una coltre di silenzio. Tutto pur di evitare un dibattito pubblico e senza rete nelle aule parlamentari. Tentativo che trova conferma nell’art. 143 della legge di bilancio, che nell’improbabilissimo termine di pochi mesi vorrebbe vedere stabiliti Lep e costi standard, da adottare non con legge ma con decreto del presidente del consiglio. Decorso inutilmente il termine, si andrebbe addirittura alla nomina di un commissario. In parlamento mai. Ma si vuole proprio assegnare a un commissario il compito di cambiare la faccia del paese, definendo i diritti di decine di milioni? Non è mera e comune incostituzionalità. È fantasia eversiva.
Se questi sentimenti agitano la platea cui ha parlato Mattarella, non può non preoccupare la proposta di costituzionalizzare la conferenza avanzata da Fedriga. Le conferenze sono un luogo di concertazione tra esecutivi, in cui le egemonie territoriali possono fare danni irreversibili. E quale significato rimarrebbe per la rappresentanza parlamentare dei territori? Anche questa mossa porta alla ultima marginalizzazione di assemblee elettive già gravemente indebolite dal taglio dei componenti, da una pessima legge elettorale che le priva di rappresentatività, dalla bassa qualità del ceto politico.
A quanto pare, si vuole proprio dar ragione a chi considera il parlamento una inutile quanto costosa superfetazione istituzionale. E sarebbe un vero paradosso se alla fine i “patrioti” fossero gli sfasciacarrozze della “patria”.