Le mani sui fondi europei

di Giovanni Bruno - lacittafutura.it - 14/12/2020
Le tensioni nella maggioranza di governo sono funzionali alla distribuzione dei 209 miliardi di euro del Recovery Plan che arriveranno nei prossimi mesi dall’Unione Europea sulla base del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza

Stiamo vivendo in diretta una (quasi) imprevista accelerazione del quadro politico, impressa nuovamente dall’incursione corsara dell’impavido Matteo Renzi che, col suo gruppo appositamente creato, è pronto a scompaginare le fila di una maggioranza che pareva destinata a continuare a tempo indeterminato, congelata in una situazione emergenziale che nessuno aveva il coraggio (o la temerarietà) di smuovere. In questi mesi solo poche notizie hanno nascosto, anche se per poche ore, la comunicazione no-stop sul Covid: le violenze della polizia statunitense sulla popolazione afroamericana e le conseguenti mobilitazioni del movimento Black Lives Matter, la battaglia europea di Conte, le elezioni statunitensi, la morte di Maradona, infine oggi la spettrale ombra della crisi di governo che si allunga su una situazione ancora drammatica, e che può estendersi ancora per molti mesi.

Renzi – forte di una pattuglia di 18 senatori, due ministri (Teresa Terranova alle Politiche agricole e forestali e Elena Bonetti a Pari opportunità e famiglia) e un sottosegretario (Ivan Scalfarotto agli Affari esteri e cooperazione internazionale) di Italia Viva – sta minacciando di aprire una crisi di governo per le proposte di gestione delle risorse del Recovery Fund (o Next Generation Eu) avanzate nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, di concerto con i ministri dell’Economia Roberto Gualtieri e dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli

L’attacco durissimo contro Conte è stato scagliato mercoledì al Senato da Renzi, in occasione delle votazioni sulla riforma dei criteri che regolano il Fondo – eufemisticamente chiamato – Salva-Stati, o Mes: la sua applicazione da parte della Troika alla Grecia, accettata dall’allora primo ministro Tsipras e del suo governo “di sinistra” – nonostante il referendum avesse indicato che il popolo greco non era d’accordo – ha provocato effetti devastanti di privatizzazioni e distruzione di servizi sociali che ancora ricordiamo con sgomento.

Questa occasione è stata solo un pretesto (alla fine, infatti, il voto di Italia Viva è stato favorevole): il vero obiettivo della sfida a Conte, che mette in bilico la tenuta dell’esecutivo, è aprire un contenzioso sul metodo (e sul merito) scelto dall’attuale presidente del Consiglio rispetto all’impiego dei soldi attesi dal Recovery Plan. Il problema enunciato è, innanzitutto, la costituzione dell’ennesima task force di 300 esperti al comando di sei super-manager: di per sé, questa scelta è criticabile, vista la lunga teoria di commissioni di esperti che continuano a moltiplicarsi, con un proliferare di idee e progetti che per adesso non hanno avuto ricadute pratiche; il ricorso a una task force di questo tipo viene rigettata da Renzi con l’accusa di esautorare i ministri e di marginalizzare il parlamento, con una torsione che affida ai tecnici le scelte proprie della politica. 

Ma la questione centrale è la gestione dei miliardi, su cui Italia Viva vorrebbe mettere le mani direttamente dispensando le risorse tramite i propri ministri. Poiché il Consiglio dei ministri ha già avanzato una proposta per un piano di ripartizione dei miliardi (196 su 209) nei vari settori, Renzi tenta di recuperare centralità politica con una mossa che alza la posta. Non è chiaro quale sia l’obiettivo di Renzi, se ottenere posti al tavolo della progettazione e della gestione delle risorse, o tentare un improbabile disarcionamento di Conte per creare una nuova maggioranza spostata ancora più a destra (con l’appoggio di Forza Italia? Con quale primo ministro?). Più verosimilmente, l’alternativa alla caduta di Conte – che potrebbe avvenire sulla legge di bilancio, ma che porterebbe a una rischiosissima gestione provvisoria – difficilmente sarebbe un nuovo esecutivo politico, quanto un governo tecnico ancora meno sensibile alle istanze democratiche di quanto non lo sia il governo attuale. Alzare la posta in maniera così plateale, con lo sdegnoso rifiuto ad avere qualche posto in più nell’eventuale “rimpasto” di governo, può avere come obiettivo di costruire le condizioni politiche per una gestione delle risorse che vadano in direzione di settori economico-finanziari.

È interessante a questo punto riprendere i numeri previsti per i progetti di investimento. È estremamente istruttivo analizzare l’ordine delle cifre e quale prospettiva di paese esse indicano: gli investimenti sono prevalenti nella “rivoluzione verde e transizione digitale” con 74,3 miliardi (27,9%) e nella “digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura’” con  48,7 miliardi (24,9%) che porteranno a privilegiare il cosiddetto smart working introducendo forme di flessibilità del lavoro sempre più massicce; poi nelle “infrastrutture per la mobilità sostenibile” con 27,7 miliardi (14,1%), in “istruzione e ricerca” con 19,2 miliardi (9,8%), nella “parità di genere, coesione sociale e territoriale” con 17,1 miliardi (8,7%) e infine, cenerentola, in “sanità e salute” con solo 9 miliardi (4,6%). La cifra risibile sulla sanità può essere interpretata soltanto come premessa inconfessabile di apertura a un non rinviabile ricorso al Mes sanitario; altrettanto, l’investimento di meno di 20 miliardi destinati insieme a ricerca e istruzione evidenzia chiaramente la sottovalutazione di un settore strategico come quello della ricerca statale e l’indifferenza alla sofferenza di uno dei settori pubblici che più hanno subito le conseguenze della pandemia, quello della scuola pubblica

Si apre una fase di scontro durissimo, che ha aperto ferite sulla riforma del Mes anche nel Movimento 5 Stelle in cui allignano malumori profondi, ma che probabilmente saranno contenuti e limitati a pochi dissenzienti. In conclusione, la doppia battaglia che si è aperta si sviluppa verso due obiettivi: da un lato quello del ricorso al Mes sanitario, che improvvisamente pare riprendere una centralità nelle scelte del governo (i 9 miliardi per la sanità alludono evidentemente alla necessità di attingere ad altre risorse); dall’altro quello di Italia Viva, che intende avere voce in capitolo nei progetti di investimento del Recovery Plan per favorire propri settori di riferimento. Imprimendo una svolta a destra a un esecutivo in bilico nell’equilibrio centrista.

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