Prima Berardo Impegno, ingegnoso influencer del Pd napoletano, poi Enrico Letta, segretario nazionale. I messaggi che da questa parte arrivano ad Antonio Bassolino si fanno sempre più insistenti e accorati. Il destinatario per ora gradisce ma non raccoglie, e resta in campo - «per vincere», dice - come candidato civico alle amministrative. Apparentemente, dunque, tutto si muove, ma nulla cambia. Sarà così fine alla fine della campagna elettorale? Non è detto.
Il segretario dem
Accorato è Letta, quando a Il Mattino dichiara che «Bassolino merita da tutti noi rispetto e scuse vere, non retoriche, per quanto ha dovuto vivere in questi anni». Il riferimento è alle diciannove assoluzioni nei processi sull’emergenza rifiuti di oltre un decennio fa. Insistente è invece Impegno, quando nell’intervista rilasciata a Il Riformista invita esplicitamente Bassolino a indicare i termini di una vera e propria riconciliazione politica e non solo di una occasionale intesa elettorale dettata dalla necessità. «Bassolino - suggerisce - indichi le condizioni per ritrovarsi con il Pd e le altre forze progressiste della coalizione, perché restare insieme è ancora possibile e non c’è alcuna ragione di andare alle urne divisi». In più, Letta tenta la carta della lusinga almeno un paio di volte: quando sottolinea che Bassolino «ha un posto d’onore nella storia di Napoli e del Mezzogiorno» e quando chiama l’ex sindaco a contribuire affinché si ripeta a Napoli «quella straordinaria rinascita di cui fu interprete e guida». Impegno, invece, usa addirittura un’argomentazione escatologica. Paragona Gaetano Manfredi a San Gennaro - nel senso che ha fatto il miracolo di mettere d’accordo il centrosinistra giallorosso - e in questo modo spiega perché la coalizione abbia scelto lui, l’ex rettore e ministro in odore di santità elettorale, come candidato a sindaco, e non Bassolino, ormai definitivamente laicizzato dal fluire della Storia. Insomma, tappeti rossi e occhi al cielo. Così il Pd si rivolge a colui che - fino a ieri ostinatamente ignorato- sembra ora rivelarsi come l’interlocutore privilegiato. Ma se finora questi messaggi non hanno sortito gli effetti sperati, essi custodiscono comunque un loro valore, perché consentono di mettere in moto un utile processo immaginifico.
L’ex sindaco capolista
E, di conseguenza, di ipotizzare come avrebbe potuto essere lo scenario politico napoletano se solo il Pd si fosse mosso per tempo nella direzione ora prospettata. Va da sé, infatti, che un chiarimento tempestivo tra il Pd e Bassolino avrebbe potuto portare a scenari molto diversi da quelli attuali. Sul punto, Letta non dice nulla, e si capisce perché: quando sarebbe stato opportuno mettere mano al caso Napoli, lui era in autoesilio all’estero, in rotta con lo stesso partito che oggi dirige. Impegno, invece, trincera il Pd in una sorta di storicismo autoassolutorio: non c’erano le condizioni per sciogliere la matassa napoletana, Bassolino non ha saputo aspettare, i tempi non erano maturi... Ora, però, nulla vieta di giocare con i se. E di immaginare, appunto, cosa sarebbe potuto accadere se il Pd avesse aderito prima - come ora pare stia diventando di moda anche tra i pentastellati - ai valori del garantismo. Tra le ipotesi, avrebbe potuto trovare posto anche una candidatura a sindaco dello stesso Bassolino. Ma si è detto della variante San Gennaro: deluchiani e pentastellati, e forse non solo loro, non ne sarebbero stati entusiasti. Ecco, allora, un’altra ipotesi molto più fondata. Forse sarebbe stato possibile un ritorno di Bassolino nel Pd a conclusione di una riflessione critica sulla «damnatio memoriae» praticata nei suoi confronti al tempo dei processi. E sulla base di questa ricomposizione sarebbe stato più facile - arrivati alla campagna elettorale - valutare l’eventualità di una sua collocazione in cima alla lista del partito. Non candidato sindaco, ma capolista.
Una scelta di diverso peso specifico, certo, ma non priva di valore simbolico. Ricompattate le forze, poi, tutto sarebbe stato ancora possibile: sia la vittoria del centrosinistra al primo turno (senza stare attenti, come oggi, a emettere giudizi sul decennio appena concluso per non offendere la suscettibilità di de Magistris) sia l’attribuzione della presidenza del Consiglio comunale al capolista Pd. E avendo questa prospettiva, molto sarebbe stato possibile costruire nella realtà, tra l’altro in linea con le più recenti riflessioni di Roberto Esposito sul valore delle istituzioni e su quanto sia stato rovinoso, per la nostra democrazia, prima sperare di abbatterle, poi condannarle all’abbandono e quindi illudersi di poterle aprire come scatolette di tonno. Affidando a mani esperte e autorevoli la massima istituzione cittadina – il Consiglio comunale – da Napoli sarebbe stato possibile non solo lanciare un messaggio al Paese in un momento di oggettiva crisi di legittimità delle assemblee elettive, ma soprattutto ritrovare un presidio democratico ormai dato per disperso e pigramente riesumato solo per il voto sui bilanci. Un presidio il cui ruolo, dopo l’elezione diretta del sindaco, si è ridotto a ben misera cosa, ma il cui destino non per questo bisogna considerare irreversibilmente compromesso. E il cui prestigio è ormai solo un ricordo, risalente – per chi scrive – agli anni in cui dagli scranni dell’assemblea cittadina, allora posti nella monumentale sala dei Baroni al Maschio Angioino, parlavano personalità come Galasso, Geremicca, Almirante, Pannella e Valenzi.
L’armonia perduta
Ma perché raccontare tutto questo? Forse per un motivo inconscio legato ai ricordi di gioventù. Forse perché è difficile resistere al fascino della cosiddetta armonia perduta. O forse - chissà - perché talvolta è confortevole credere che la ragione non è nulla senza l’immaginazione. Tanto più se mancano ancora molte settimane al voto e tante cose possono ancora succedere.