L’Italia è una Repubblica democratica fondata…sulla corruzione. Il ciclone giudiziario che ha colpito la Regione Liguria ha messo a nudo tutti i peggiori vizi del nostro Paese, con le solite tristi dinamiche che coinvolgono i rapporti tra politica, istituzioni pubbliche, soggetti privati, enti di gestione, faccendieri e, immancabili, i clan mafiosi. Sia chiaro, la giustizia farà il suo corso e a chi è accusato va riconosciuta sempre la presunzione di innocenza fino a quando l’iter giudiziario sarà concluso con una sentenza definitiva. Il rispetto di tale principio fondamentale, però, non può in alcun modo impedire un ragionamento di ordine morale né può inibire la naturale richiesta di chiarezza anche a chi è stato vicino agli attori di quel presunto sistema corruttivo. Che alla giunta Toti si chieda un passo indietro, quello delle dimissioni, in attesa che si faccia chiarezza, è sacrosanto. Così come lo è ragionare sulla miseria umana che, ogni volta, le indagini su mafie e corruzione politico-imprenditoriale mettono in evidenza.
Si assiste a una omologazione dei vizi, a una triste ridondanza dei comportamenti illeciti, alla demenziale convinzione di poterla scampare, di poter mettere in atto azioni corruttive nella speranza che nessuno venga poi a chiederne conto. Il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, si dice tranquillissimo, il suo legale afferma che tutto verrà chiarito e parla di fatti che sono spiegabili “nell’ambito di una legittima attività di amministrazione per l’interesse pubblico”. Lo spiegheranno ai magistrati e sarà importante per loro chiarire bene, perché da quello che emerge dalle carte il quadro criminoso, al di là delle eventuali responsabilità di Toti, ha un raggio talmente ampio e grave che si fa fatica a rintracciare anche un minuscolo frammento di interesse pubblico. La lunga indagine condotta dalla Direzione distrettuale antimafia e dalla Guardia di Finanza dipinge infatti uno scenario, per quel che riguarda il numero di indagati e i reati contestati, molto pesante.
Le accuse mosse, a vario titolo, a indagati e arrestati, riguardano tangenti, mazzette, favori e finanziamenti illeciti, corruzione elettorale, voto di scambio, con l’aggravante di aver favorito un clan di cosa nostra, quello dei Cammarata, originario di Riesi e con diramazioni a Genova. Insomma, ancora una volta, l’Italia scopre la sua coerente omogeneità, rivela una comune identità tra nord, centro e sud. Un’Italia divisa su tutto ma coesa nei costumi, soprattutto quelli che hanno a che fare con la corruzione. E il racconto giudiziario del Paese ci offre sempre spunti interessanti, che rivelano l’umana miseria dei protagonisti. Sono talmente prevedibili nei loro vizi, da risultare quasi teneri, tremendamente simili ai personaggi da cinepanettone italiano. Non ci si vende solo per soldi cash, per banconote da nascondere sotto le mattonelle e usare per il partito o per i bisogni familiari, anche quelli meno primari. Ci si vende per soggiorni lussuosi a Montecarlo, per giocate al casinò, per viaggi ed eventi sportivi e mondani, orologi d’oro, trattamenti estetici, massaggi e così via.
Naturalmente non poteva mancare il voto di scambio, i posti di lavoro o i posti in alloggi popolari in cambio di voti, insomma tutto quel panorama triste e becero al quale, in occasione degli appuntamenti elettorali, in forme e con modalità più o meno simili, si assiste un po’ ovunque. Al di là dell’esito delle indagini e delle singole responsabilità rispetto a questo o quel reato specifico, ciò che rileva è sempre la questione morale, quella che per il centrodestra al governo evidentemente ha una gradazione diversa a seconda delle convenienze o dell’identità politica degli accusati. Giorgia Meloni e i suoi alleati, che in altre occasioni (anche molto recenti) sono apparsi straordinariamente zelanti e tempestivi nel comunicare urbi et orbi la loro indignazione giustizialista nei confronti degli esponenti di schieramenti avversi, si prodigano adesso in una inedita forma di garantismo, parlando di fiducia nella magistratura oppure tirando fuori, tra le righe, l’ipotesi del complotto.
Lo ha fatto, ad esempio, il ministro Lollobrigida, uno che quando c’è da spararla grossa non si tira mai indietro, il quale ha mostrato perplessità per una indagine durata tre anni e conclusa con gli arresti proprio “a venti giorni dal voto”. Nulla di originale, per carità, solo che nel 2024 questa vecchia strategia di berlusconiana memoria e della giustizia ad orologeria fa un po’ ridere e un po’ impressione e stona parecchio. Specialmente se sei esponente di un governo che, nel mettere le mani sulla Rai e sull’informazione pubblica, ha riempito i tg con minuti di servizi mandati in apertura (e diventati priorità persino rispetto alle guerre) su vicende giudiziarie ancora aperte che hanno interessato gli avversari politici. Forse, lasciando perdere il commento sulle responsabilità penali che spetterà alla giustizia dimostrare ed eventualmente sanzionare, sarebbe meglio, per chi fa parte della maggioranza che governa la Regione Liguria e che coincide con quella che governa il Paese, concentrarsi sulla questione morale.
Vale a dire sulla necessità di fare un passo indietro (vedi dimissioni della giunta) per spazzare via ogni sospetto di complicità o di tacita accettazione di quella che, al momento e fino a quando non sarà fatta chiarezza, è una gestione illecita del potere, macchiata, secondo gli inquirenti, da reati gravissimi che tradiscono la fiducia degli elettori. E arriviamo al punto più preoccupante: saranno capaci, questi elettori, di lasciarsi insinuare il dubbio di aver sbagliato scelta? Saremo capaci noi italiani, un giorno, di liberarci di questo dannato vizio, che sembra ormai appartenere al nostro Dna, di considerare la corruzione un elemento con il quale alla fine si può convivere, magari giustificandolo come un fatto connesso alla “legittima attività di amministrazione per l’interesse pubblico”?
Perché puntare il dito contro chi viene beccato non conta se poi quel dito non lo puntiamo ogni volta contro le nostre non lecite scelte di convenienza. Ci siamo già passati negli anni ‘90, abbiamo visto crollare un sistema molto più grande di quello scoperchiato in Liguria, abbiamo puntato il dito, chiesto pulizia, osannato magistrati e accettato perfino metodi talvolta eccessivi, lanciato monetine verso coloro ai quali il giorno prima chiedevamo favori. E poi? Nulla. Tutto dimenticato. Fino alla prossima inchiesta. Per poi scordare nuovamente tutto, quando impugniamo pigramente una matita, nel chiuso di una cabina elettorale e, nei fatti, contribuiamo a riscrivere l’articolo 1 della nostra Costituzione, sostituendo la parola “lavoro” con il termine “corruzione”.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org