Alcune premesse
Con la consueta affannosa velocità di questo Governo, il Decreto-Legge (D.L.) 23 ottobre 2024, n. 158, recante “disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale”, approvato dal Governo con tanto risentimento verso la magistratura, è arrivato presso la Prima Commissione Affari costituzionali della Camera. È il disegno di legge (d.d.l.) di conversione, Atto Camera (AC) 2113. Inizia pertanto l’iter di conversione in legge che deve durare, come tutti sanno, al massimo sessanta giorni.
Per ora, è la prima tappa di una corsa contro il tempo del Governo Meloni per avvalorare, sul piano nazionale ed europeo, un “modello” preoccupante e pericoloso in materia di asilo, sul sangue di tanti disperati che lottano per la vita, ma andiamo con ordine.
La questione emerge sul tavolo delle relazioni fra diritto interno e diritto dell’Unione Europea e, In primis, sembra necessario rammentare alcuni principi costituzionali sui rapporti fra la nostra Repubblica e le istituzioni trans-nazionali. L'art. 10 della Costituzione contiene principi incontestabili e chiarissimi:
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le norme internazionali (quindi anche quelle europee) quando generalmente riconosciute si impongono nel nostro ordinamento. La legge nazionale non può contrastare le norme dei trattati internazionali che riguardano le condizioni giuridiche dello straniero;
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quest'ultimo, se in fuga da un Paese d’origine in cui sono negate le libertà democratiche garantite dalla nostra Costituzione, ha diritto d’Asilo nella nostra Repubblica, secondo le leggi che disciplinano l’istituto.
Nell’art. 117.1 Cost, inoltre, si fissa il principio della limitazione della potestà legislativa statale e regionale in ossequio ai “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Ne discende che gli atti normativi europei si impongono e non possono essere elusi, anzi, se sono direttive, devono essere recepiti con atti interni ai fini dell’adeguamento.
In secundis, esiste un Sistema Comune di Asilo (SECA), per fortuna, avviatosi con il Consiglio europeo di Tampere nel 1999; transitato poi all’interno del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (in particolare, art.78 come modificato dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona); perfezionato fra la fine del 2011 e giugno del 2013. Entravano in vigore, infatti, 1) - la nuova Direttiva Qualifiche (2011/95/UE); 2) - la nuova Direttiva Accoglienza (2013/33/UE); 3) - la nuova Direttiva Procedure (2013/32/UE); 4) - il Regolamento Dublino III (n° 604 del 2013); 5) - il Regolamento Eurodac (UE n° 603 del 2013). Le direttive sono state tutte recepite dall’ordinamento italiano.
In questo quadro si evidenziano norme “generalmente riconosciute” che, come tali, si impongono nel nostro ordinamento: I migranti provenienti da paesi dove sono negate le libertà garantite dalla nostra Costituzione hanno diritto di richiedere protezione nella nostra Repubblica; la procedura di verifica dello status di “rifugiato” deve essere svolta dal Paese destinatario della richiesta di protezione; chi richiede asilo, secondo la Direttiva 2013/32/UE, trovandosi nelle acque territoriali italiane, deve essere sbarcato per l’esame della sua domanda ai sensi della Direttiva stessa. Il migrante ha diritto di restare sul territorio italiano per l’intera durata delle procedure di verifica. Ebbene, il punto è proprio questo: se il migrante chiede asilo nelle acque territoriali italiane, non può essere mandato in Albania. Il Governo Meloni crea l’Italia in Albania. Geniale!
Il protocollo Italia/Albania e la legge di ratifica
Il 6 novembre 2023 a Roma rappresentanti dei due governi siglano il Protocollo Italia/Albania "per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria”. In esso vi è l’obiettivo di sbarcare i richiedenti asilo in altro luogo (non in Italia) per la procedura di verifica e rimpatrio, sotto la giurisdizione italiana. Un tentativo furbesco ma maldestro. Quasi che tutti dormissero. I trattati internazionali devono essere ratificati dal Presidente della Repubblica, previa autorizzazione con legge del Parlamentò (artt 80, 87.9 Cost). “Quando occorre”, aggiunge la norma costituzionale. Per escludere sia il Parlamento che il Presidente della Repubblica, ecco la furbata, Il Ministro per le relazioni col Parlamento tenta di far passare il Protocollo come un documento esecutivo di un precedente trattato con l’Albania. Se il Ministro l’avesse spuntata, non sarebbero servite né ratifica né legge di autorizzazione, ma gli è andata male: si è avuta un’imponente sollevazione di scudi dalla dottrina giuspubblicistica e da un altissimo numero di associazioni di base. Tale da far ripiegare il Governo su un d.d.l. di ratifica ed esecuzione, diventato legge a tamburo battente (l. n. 14/24 del 21 febbraio 2024).
il Governo, così, rilancia la strategia di esternalizzazione del controllo dei flussi che punta allo spostamento dei confini fuori dai paesi UE, inaugurata con gli accordi dei primi anni 2000 tra Italia e Libia (prima da Berlusconi e da Pisanu, poi da Prodi, D'Alema e Amato). Ma prima gli accordi prevedevano l’esternalizzazione verso paesi terzi qualificati “sicuri”, adesso l’Albania figura semplicemente come uno Stato che effettua un appoggio funzionale per operazioni di verifica fatte dall’Italia. Siamo di fronte a una ridefinizione dei concetti di territorio e di confini, perché i territori albanesi messi a disposizione costituiscono i “confini territoriali” italiani entro i quali avviene la procedura di verifica e controllo delle richieste di protezione. Si tratta, in realtà, di una “finzione di ingresso”. Un'invenzione cattiva (perché sulla pelle di migliaia di disperati che di fronte hanno solo la morte) per far figurare la riduzione degli sbarchi promessa nelle campagne elettorali.
Da una più attenta lettura della legge di ratifica (l. 14/2024) emergono altre importanti particolarità. Le persone da rinchiudere nelle “aree” albanesi sono quelle “imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione Europea, anche a seguito di operazioni di soccorso” (art. 3.2). Lascio solo immaginare il dramma delle persone in situazioni di vulnerabilità: si pensi alle donne ai minori non accompagnati, alle persone anziane, a chi ha subito torture e sevizie, stupri e mutilazioni genitali ed altre bestialità (si badi: quasi tutti...). Queste sono persone che non possono essere sottoposte a procedure di frontiera ma, secondo dell’art. 17 d.lgs. 142/2015 devono essere immediatamente sbarcate in Italia. Invece, nell’ambiguità della legge di ratifica, si direbbe che tutti, una volta salvati e prelevati in acque internazionali verranno trasportati in Albania, qui sottoposti alle verifiche e poi trasportati in territorio italiano.
I giudici romani che non conoscono il francese
I profili più strettamente giuridici di tutta la vicenda sono emersi con estrema chiarezza nel Decreto n. 42251 R.G. 2024 del Tribunale ordinario di Roma del 18 ottobre scorso. I giudici non convalidano, infatti, il trattenimento dei migranti in Albania non perché a loro non piacciono gli hotspot albanesi o non condividono la scelta di esternalizzazione delle procedure di verifica e rimpatrio fatta dal Governo. Le questioni alla base della mancata convalida sono strettamente giuridiche e ben argomentate. Essi non contestano affatto il Protocollo Italia/Albania, né la rispettiva legge di ratifica, anzi, partono proprio dal dettato che da questi atti emerge e dagli espliciti richiami all’ordinamento nazionale ed europeo che contengono.
La questione giuridica è sull’applicabilità della procedura accelerata di frontiera (art. 28-bis d.lgs. n. 25/2008, attuazione della Direttiva 2005/85/CE). Quella, cioè, che consente ai migranti la richiesta di protezione in due circostanze definite: o perché il migrante alla frontiera è stato fermato avendo “eluso o tentato di eludere i relativi controlli”, oppure perché il richiedente proviene da un Paese designato di origine sicura. Per la prima circostanza, i giudici, in punto di diritto, “escludono che possa anche solo ipotizzarsi l’applicazione della procedura accelerata di frontiera”; per la seconda, essi negano la provenienza da paesi di origine sicura non per propria valutazione di merito, bensì in base alla giurisprudenza dell’Unione (Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) – Grande Sezione, del 4/10/2024, causa C-406/22). Da questo quadro (giuridico, non politico) emerge che “la designazione di un paese come paese di origine sicuro dipende [...] dalla possibilità di dimostrare che, in modo generale e uniforme, non si ricorre mai alla persecuzione [...], tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti e che non vi sia alcuna minaccia dovuta alla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno”. I migranti, pertanto, non potevano essere trattenuti in Albania.
Dato il grande clamore suscitato dal Decreto del Tribunale romano, questo, in un breve comunicato stampa chiosa: “Il diniego della convalida dei trattenimenti nelle strutture ed aree albanesi equiparate alle zone di frontiera o di transito italiane è dovuto all’ impossibilità di riconoscere come paesi sicuri gli Stati di provenienza delle persone trattenute, con la conseguenza dell’inapplicabilità della procedura di frontiera e, come previsto dal Protocollo, del trasferimento al di fuori del territorio albanese delle persone migranti, che hanno quindi diritto ad essere condotte in Italia”.
La reazione scomposta del Governo
Il Governo sbotta: Salvini, Nordio (che conosce il francese meglio dei giudici romani) e la seconda carica dello Stato insieme ad altri ducetti di turno. Si passa dall’accusa di politicizzazione della magistratura alla minaccia di accelerare la revisione costituzionale sul sistema giudiziario che renderebbe docili i magistrati; tutto questo perché i giudici hanno fatto né più né meno quello che dovevano fare.
Non è finita. Il Governo, anziché ricorrere in Cassazione avverso questa decisione dei giudici romani, compie un’altra sciocchezza: approva un Decreto-Legge in cui fra altre cose (lo vedremo), aggiorna l’elenco dei paesi di origine sicura, così (dicono in conferenza stampa) è stabilito per legge e i giudici non possono che applicarla. Ma questo è davvero risibile: Il giudice deve esercitare un ruolo di controllo e verifica sulla primazia dell’ordinamento europeo rispetto a quello nazionale e disapplicare le norme interne con esso in contrasto.
A fronte della sentenza CGUE secondo cui paesi di origine sicura non possono essere quelli che anche parzialmente e nei confronti di gruppi di persone negano le libertà fondamentali e trattamenti umani, il Decreto del Governo anticipa i tempi al giugno 2026 quando la Direttiva di riferimento non sarà più in vigore (ma ora lo è) e dichiara di origine sicura diciannove paesi: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisi. Inoltre, il Governo dispone che l’aggiornamento dell’elenco sopra riportato in futuro sia effettuato da un atto avente forza di legge (un Decreto-Legge), non più da un provvedimento interministeriale, nella convinzione (incredibile) che siccome è atto avente forza di legge, i giudici non possono che applicarlo.
Il Governo non ha chiuso il cerchio e, soprattutto, non ha evitato la figuraccia del fallimento di questa indecente “invenzione” dettata dall’odio razziale: il d.d.l. di conversione è alla prima Commissione della Camera; il Decreto-Legge da convertire ha già modificato le fonti italiane di recepimento, ma si espone alla censura della Consulta e, ancora, all’eventuale disapplicazione da parte del Giudice ordinario, ove questi ravvedesse uno o più contrasti con l’ordinamento dell’Unione. Ne vedremo altre.