Dunque, non ci sarà nessun fronte costituzionale. Alla possibilità (variamente declinabile) di una coalizione “tecnica” non politicamente omogenea, ma pensata per impedire a una destra di matrice fascista di mettere le mani sulla Costituzione antifascista (unica soluzione consentita da questa immonda legge elettorale), si è preferita una piccola alleanza di centro-destra imperniata su quella che ora si chiama Agenda Draghi (cioè lo stato delle cose: l’unica costituzione che sta davvero a cuore). La responsabilità di questa scelta scellerata, e delle sue conseguenze, ricade sul Pd di Enrico Letta. Il patto leonino (dove il leone non è il Pd…) con Azione di Carlo Calenda, prodotto social-mediatico dai contorni grotteschi, contiene atlantismo incondizionato e armato, crescita non sostenibile, propensione al presidenzialismo. L’adesione (pregressa) di Articolo 1-Mdp e quella (successiva) di Sinistra Italiana forniscono striminzite foglie di fico a sinistra, riducendo questi piccoli soggetti politici ad agenzie di collocamento per i loro gruppi dirigenti. In questo senso, l’addio al Parlamento di Pierluigi Bersani e il voto contrario di Luciana Castellina sottraggono provvidenzialmente due figure carismatiche a un ben triste epilogo.
Non solo questa piccola alleanza di centro-destra non governerà il Paese, ma di fatto consegnerà governo e Costituzione nelle mani di una coalizione à la Orbán. L’unica spiegazione di quello che appare un suicidio collettivo è la ferma volontà di Letta di non stringere nemmeno un’alleanza tecnica con il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte. Ora, la ragione di questa cieca avversione non è, come si vorrebbe, la caduta del governo Draghi (dovuta innanzitutto alla scelta insensata di chiedere la fiducia sull’inceneritore di Roma, e prima a quella di teleguidare la scissione di Di Maio), ma a qualcosa che sta a monte: e cioè alla presa d’atto, da parte del blocco sociale cui Letta risponde, dell’“inaffidabilità” di Conte. Per quanto moderati siano stati gli scostamenti dell’“avvocato del popolo” dal binario unico predicato dall’establishment (dal Reddito di cittadinanza al decreto dignità, dall’opposizione a un atlantismo cieco e al riarmo fino alla sconfessione del greenwashing di Cingolani…) e nonostante i suoi cedimenti (il cui più grave fu la sottoscrizione dei decreti sicurezza di Salvini, ispirati alla linea Minniti), Conte è avversato, odiato, attaccato come il pericolo pubblico numero uno. E cioè come un pericolo più grave dell’arrivo al governo di Giorgia Meloni.
Questo, mi pare, è il vero significato politico dell’operazione Letta-Calenda, nato per difendere la costituzione materiale: la preparazione di una piattaforma pattizia da proporre all’estrema destra al governo. Il Corriere della Sera, con Angelo Panebianco, lo preconizzava già a maggio: “Ci fu un momento nella Firenze del tardo Duecento in cui il legato pontificio riuscì a costringere guelfi e ghibellini a governare insieme la città. Un po’ per celia e un po’ sul serio ci si può chiedere se dalle parti della curia romana ci sarà qualcuno così autorevole da convincere i due partiti che saranno probabilmente più votati alle prossime elezioni, Pd e Fratelli d’Italia, a governare insieme. Dal momento che, grazie all’intelligenza e al coraggio dei loro leader, essi si sono schierati – senza riserve mentali – dalla stessa parte (quella occidentale) in questa guerra”. Ora, la curia in questione non è romana: semmai americana. L’accreditamento atlantico di Fratelli d’Italia, i paterni consigli di Mario Draghi a Giorgia Meloni sui nomi di alcuni ministri-chiave (quelli utili a mettere in sicurezza la crescita insostenibile, ma dipinta di verde, del Pnrr) e alcuni segni evidenti nel mondo mediatico inducono a leggere la manovra di Enrico Letta in questo senso. L’antifascismo strumentale riscoperto in queste settimane sarà rapidamente archiviato in nome dei comuni interessi (il lodatissimo Crosetto, presidente della federazione dei produttori di armi, è il ponte naturale per l’intesa): non forse fino a un governo Pd-Fdi (a meno che a guidarlo non sia Draghi), ma assai probabilmente fino a una riforma della Costituzione che tenga insieme il presidenzialismo caro all’estrema destra (ma anche a Renzi, Calenda e a parti importanti dello stesso Pd) con l’orribile autonomia differenziata (fortemente voluta anche dai governatori Pd, con in testa l’ineffabile Bonaccini).
È evidente che questo patto tra le due destre, l’Agenda Draghi e la Fiamma di matrice fascista, è il punto d’arrivo del costante spostamento a destra del quadro politico e del senso comune: il Pd sta solo pavimentando l’ultimo tratto di una strada che ha, in tutti questi anni, pervicacemente costruito. Ed è anche evidente che questo scenario nero ha oggi un solo nemico rilevante: il Movimento 5 Stelle di Conte.