La risposta del Presidente di Confindustria ai sindacati non si è fatta attendere. Se qualcuno trovava strano un silenzio prolungato da parte del loquacissimo Carlo Bonomi ora è accontentato. In otto pagine indirizzate a tutti i presidenti del sistema di rappresentanza degli industriali, Bonomi detta la linea per l’imminente autunno. In vista del 7 settembre, giorno in cui incontrerà i sindacati, fa sapere che non è vero che Confindustria non vuole rinnovare i contratti di lavoro, solo che li vuole «rivoluzionari».
Lo stesso scrivente si accorge dell’enormità dell’espressione usata e quindi aggiunge che l’aggettivo «proprio non ci si addice» ma che sono piuttosto «il lavoro e le tecnologie, i mercati e i prodotti, le modalità per produrli e distribuirli, ad essersi rivoluzionati».
Come si vede non si tratta affatto di argomenti nuovissimi, ma il Presidente della Confindustria coglie l’occasione del covid e del post covid per riproporli con rinnovata energia. Sulla scorta anche di qualche sostegno che gli è giunto dall’intellighenzia del sistema.
Basta leggere ciò che scriveva giovedì scorso su la Repubblica Tito Boeri, secondo il quale la pandemia avrebbe mutato a tal punto le condizioni del lavoro da rendere necessaria la messa in soffitta del contratto nazionale di lavoro: «O si accetta la sfida della contrattazione decentrata oppure il rischio è di non governare più nulla, come sta sperimentando in questi giorni Confindustria nel caso del contratto dell’industria alimentare».
Bonomi estende il concetto a tutti i settori e per questo chiama a raccolta i rispettivi capi. Il carattere «rivoluzionario» dei contratti nazionali consisterebbe, secondo l’ottica bonomiana, in pratica nella loro estinzione.
La contrattazione individuale – si pensi allo smart working – e aziendale sarebbe il nuovo da cui ripartire. Perché solo lì avverrebbe l’innovazione, dalla forza di comando di capitani di industria dotati di maggiore aggressività.
I quali devono riprendere il controllo su tutto, costi quel che costi, a partire dal governo dell’orario di lavoro e dalla misura del salario. Sono finiti i tempi, insiste Bonomi, «del vecchio scambio di inizio Novecento tra salari e orari». Quale sia effettivamente stato non è chiaro, quello che è lampante che di compromesso quale che sia non si vuole sentire parlare da parte industriale.
Naturalmente Bonomi non se la prende solo con i sindacati, ma non manca di prendere di petto il governo in merito alla scelta sull’estensione degli ammortizzatori sociali e sul blocco dei licenziamenti.
Non gli basta che il decreto di agosto abbia già aperto sei vistose falle che permettono agevolmente ai datori di lavoro di tornare a licenziare. Vuole che il binomio Cig per tutti-stop ai licenziamenti venga definitivamente liquidato oltre che nella pratica dal campo delle politiche del lavoro, perché queste devono ispirarsi esclusivamente a una concezione «attiva e non passiva». Ovvero devono lasciare mano libera all’impresa, rinunciare o quantomeno ridurre al minimo indispensabile l’aspetto della tutela della parte più debole nel rapporto di lavoro.
Ritorna in termini ancora più precisi la giaculatoria sullo «spirito anti-industriale» che dilagherebbe nel paese e che favorirebbe addirittura «tentativi di vera e propria intimidazione delle imprese per indurle a tacere». Non si tratta naturalmente di parole dette a caso ma ben meditate e messe per iscritto. Non è solamente il nuovo volto della Confindustria. È qualche cosa di più.
È il farsi, da parte dell’associazione degli industriali, partito politico, che intende combattere in campo aperto il sindacato – secondo una logica che ricorda il famigerato no union – e su questa base dettare la linea al governo.
Un programma ambizioso e di stampo revanscista che si manifesta ora con questa virulenza non solo per le caratteristiche del nuovo Presidente, ma per la ghiotta occasione che si presenta di utilizzare e di indirizzare il massiccio flusso degli aiuti e dei prestiti europei. Non è un caso che la lunga lettera si soffermi sull’esistenza di un «pregiudizio anti-europeista» e sul rifiuto (anche se in realtà si tratta solo di un rinvio decisionale) dell’utilizzo del Mes.
Lo scontro di classe, nel significato più ampio e moderno del termine, ha il suo epicentro proprio sulle finalità e sulle modalità della ricostruzione postpandemica, quindi su chi conquisterà la plancia di comando.