La proposta trasversale lanciata a febbraio da associazioni che vanno dalla destra del PD (Libertà Eguale) al centro-destra (Fondazione Magna Carta) e sottoscritta anche da alcuni costituzionalisti che in passato hanno sostenuto l’elezione popolare di “qualcuno”, fosse esso il Presidente della Repubblica o il Primo ministro, si propone di giungere all’approvazione di una riforma costituzionale da parte dei due terzi dei componenti delle Camere che eviterebbe il ricorso alla “sciagura” del referendum.
In realtà si tratta non di una proposta di mediazione tra maggioranza e opposizioni, ma del tentativo di operare un correttivo al progetto meloniano di premierato che non ne cambia la natura e l’obiettivo di fondo. La logica resta quella della legittimazione popolare del capo del Governo, che i “mediatori” chiamano Primo ministro, ma, poiché l’elezione popolare diretta sembra eccessiva, l’opzione è per l’obbligo della indicazione nella scheda elettorale dei candidati alla carica. Ovviamente con un sistema elettorale che dovrebbe dare la maggioranza dei seggi, anche ricorrendo al premio, a una lista o a una coalizione il cui candidato sarebbe obbligatoriamente nominato Primo ministro dal Presidente della Repubblica e acquisirebbe nuovi poteri. Il tutto è condito da un pizzico di cancellierato alla tedesca, come la fiducia parlamentare iniziale, la proposta al Capo dello Stato di revoca dei ministri, la sfiducia costruttiva con la quale la maggioranza assoluta del Parlamento indica il nome del nuovo Primo ministro, un ruolo propositivo nello scioglimento del Parlamento in caso di mancato accoglimento della questione di fiducia.
In pratica l’indicazione popolare del Primo ministro non è molto diversa dall’elezione popolare come ha sottolineato la ministra Casellati e, aggiungiamo noi, al pari di quella, non è prevista in nessuno Stato democratico. Sostenere che nelle forme di governo parlamentari europee esisterebbe una regola convenzionale la quale imporrebbe la nomina del leader del partito che ha vinto le elezioni costituisce un’indebita e fuorviante generalizzazione dell’esperienza del Regno Unito, dove non c’è nessuna indicazione nella scheda elettorale e in un contesto bipartitico a decidere è il partito che ha avuto la maggioranza dei seggi alla Camera dei comuni, il quale è libero di cambiare il Primo ministro quando vuole, com’è avvenuto per tre volte nella legislatura in corso (alla faccia del “governo di legislatura” conclamato dai sostenitori della indicazione popolare!). Quanto alla maggioranza delle democrazie europee, la crisi dei sistemi politici bipolari, derivante dal declino dei partiti tradizionali (socialisti e conservatori) e dall’ascesa di forze politiche di estrema destra, rende più complessa la formazione dei governi che richiede lunghe trattative e si fonda su coalizioni postelettorali le quali non comportano automaticamente la nomina del leader del partito o della coalizione più votata.
L’abbinamento a un sistema elettorale con premio di maggioranza costituisce per l’elettore una sorta di “paghi tre, prendi uno”, in quanto prefigura un’unica scheda per eleggere contestualmente le due Camere e scegliere il Primo ministro, la cui indicazione avrebbe un effetto di trascinamento determinante sull’elezione dei parlamentari. Il tutto comprimerebbe la libertà del voto che sarebbe unico, come nel progetto originario Meloni, senza possibilità dell’elettore di differenziarlo, e indebolirebbe il Parlamento fin dal momento genetico nei confronti del capo del Governo. In seguito l’assemblea sarebbe sempre esposta alla possibilità dello scioglimento anticipato, che il Primo ministro potrebbe imporre facendo votare la propria maggioranza contro la questione di fiducia. Quanto a correttivi alla tedesca, come la fiducia iniziale al Primo ministro e la sfiducia costruttiva, sono totalmente anomali nel quadro di un sistema fondato sulla legittimazione popolare e sono concepibili solo in un forma di governo parlamentare nella quale il Primo ministro deriva dall’assemblea e può essere da questa sostituito nel corso della legislatura. Ovviamente nella proposte dei “mediatori” non c’è traccia di una delimitazione dei poteri del Governo, come la decretazione d’urgenza e il ricorso alla questione di fiducia, che di fatto gli hanno permesso di impadronirsi della potestà legislativa, né il riconoscimento di nuovi poteri di controllo su iniziativa della opposizione, come l’impugnazione preventiva di una legge alla Corte costituzionale e l’istituzione di una commissione di inchiesta.
In direzione della violazione dell’equilibrio, già precario, tra i poteri va l’indebolimento delle competenze del Presidente della Repubblica sulla formazione del Governo e sullo scioglimento del Parlamento che si configurano come atti dovuti. Più in generale la legittimazione più ridotta del Capo dello Stato rispetto a quella popolare del Primo ministro limiterebbe il ricorso agli altri suoi poteri e alla cosiddetta moral suasion nei confronti dei governi.
La proposta dei pontieri, oltre a essere inaccettabile nei contenuti, è anche datata e fuori dalla realtà, in quanto si richiama a quella contenuta nel programma de L’Ulivo del 1995 e nella relazione Salvi nella commissione bicamerale del 1997, quindi a un contesto che è lontano un’era geologica da quello attuale e comunque ha dato vita a un bipolarismo anomalo e conflittuale, causa principale della instabilità dei governi. Il bipolarismo attuale è asimmetrico, in quanto vi è una sola ampia coalizione, quella di centro-destra, la quale peraltro non ha presentato un candidato comune prima del voto, rinviando a dopo le elezioni la proposta al Capo dello Stato di dare l’incarico al leader del partito più votato, mentre il “campo largo” progressista è di improbabile costituzione e sarebbe altamente problematico individuarne il leader. Quindi imporre la presentazione preventiva obbligatoria dei candidati–Primo ministro potrebbe addirittura rendere più difficile la formazione di coalizioni, che deve essere se mai il prodotto di una effettiva convergenza politico-programmatica.
L’spetto più incredibile della proposta dei pontieri è la pervicace volontà di evitare il referendum in quanto produrrebbe una “contrapposizione tra Governo e opposizione pro-tempore, rendendo del tutto marginale il contenuto effettivo della riforma”. C’è da restare trasecolati: il popolo che sarebbe chiamato a legittimare il titolare del capo del Governo, non sarebbe in grado di pronunciarsi su tale “riforma”. Insomma dal popolo come supremo decisore che deve investire il Governo al popolo bue che deve accettarla a scatola chiusa senza potersi pronunciare nel merito! Probabilmente alcuni dei promotori non hanno ancora metabolizzato l’amara sorpresa dei risultati dei referendum dl 2006 e del 2016 che hanno bocciato le “grandi riforme” di Berlusconi e di Renzi modificative di quasi tutta la seconda parte della Costituzione con una maggioranza di No molto più ampia di quella che in Parlamento aveva votato contro. Va ribadito con forza che il referendum costituisce un istituto di garanzia per impedire che una maggioranza non corrispondente a quella dei votanti e men che meno a quella degli elettori possa modificare a suo piacimento la Costituzione (quella attuale ha avuto circa il 44% dei voti corrispondente al 28% del corpo elettorale!). Viene il sospetto che una parte dei “mediatori” punti ad una approvazione dei due terzi grazie all’apporto di alcuni altri “ascari”, oltre ai renziani già pronti alla bisogna, con emarginazione della grande maggioranza della opposizione. Agli smemorati di Libertà Eguale va ricordato che nel 2002 un disegno di legge costituzionale a firma Tonini, Morando e altri proponeva di elevare la maggioranza per la revisione della Costituzione da assoluta ai tre quinti dei componenti delle Camere e di rendere sempre possibile il referendum anche in caso di approvazione da parte dei due terzi. La difesa della possibilità del ricorso al referendum deve essere oggi una battaglia democratica e garantista volta a evitare che la Costituzione possa essere liberamente stravolta da una maggioranza artificiale creata dal sistema elettorale e non corrispondente a quella dei cittadini.
Il dubbio che alla fine per alcuni sia accettabile la modificazione parziale del progetto Meloni senza intaccare l’elezione popolare del Primo ministro, è accentuato da altre due considerazioni. La prima consiste nel fatto che il documento sottoscritto dai pontieri attribuisce le stesse responsabilità a Governo e opposizioni per la mancanza di un accordo, come se non fosse apparsa alla luce del sole la volontà dell’esecutivo di procedere a colpi di maggioranza (ivi compresa la rivendicazione della decisione come “personale” da parte della Presidente del consiglio). In secondo luogo è significativo che Tonini e altri promotori sostengano, esattamente come la ministra Casellati, che la proposta di premierato sarebbe una “mediazione” con l’opposizione in quanto il Governo avrebbe rinunciato (bontà sua!) all’ipotesi presidenziale. L’affermazione è del tutto falsa in quanto il premierato elettivo è molto più squilibrato e dirompente dei modelli presidenziali nei quali sono previsti contrappesi all’elezione popolare del Presidente (soprattutto in quello nordamericano) e l’elezione del Parlamento è separata e quindi può non attribuire la maggioranza dei seggi al partito o alla coalizione che lo sostiene (come avviene attualmente negli Stati Uniti e in Francia).
Infine la proposta avanzata sottovaluta quanto sia irrinunciabile nel progetto meloniano l’obiettivo di una “terza Repubblica” che cambi dalle fondamenta l’architettura costituzionale del paese, da sempre nel dna della destra, e la sua derivazione da uno scambio scellerato tra premierato e autonomia differenziata che colpirebbe gli equilibri costituzionali: il primo quelli tra poteri e tra maggioranza e opposizione, la seconda quelli tra territori e cittadini. Il progetto Meloni è quindi da respingere in toto e non può essere oggetto di mercanteggiamenti più o meno interessati.