Si torna a parlare di legge elettorale proporzionale. Ma questa volta a farlo non è una minoranza di nostalgici della prima Repubblica, ma le stesse forze che compongono il nuovo governo, fino a poco tempo fa fautrici del maggioritario.
Peraltro componenti importanti e influenti delle stesse non sono affatto convinte del proporzionalismo. E’ quindi necessario fare il punto su questa vicenda che si prospetta assai intricata e incerta.
A cosa dobbiamo questa positiva seppur parziale conversione verso il proporzionalismo? In effetti il Rosatellum in presenza di una riforma costituzionale che dimezza il numero dei parlamentari renderebbe evidente anche ai ciechi la propria incostituzionalità, perché, incrementando l’ampiezza dei collegi accrescerebbe la distanza fra gli eletti e gli elettori, comprimerebbe oltre misura il pluralismo politico, approfondirebbe la distorsione fra la volontà espressa dagli elettori ed il risultato ottenuto in termini di seggi.
Tutto bene, quindi? No, per una serie di motivi, tra i quali il primo è proprio l’irragionevolezza della modifica costituzionale che si vuole attuare. Diversi costituzionalisti, fra cui il compianto Rodotà, fin dai lavori della Commissione bicamerale Bozzi (1983-1985) - che però poi adottò a maggioranza una soluzione diversa di cui comunque non si fece niente – hanno proposto di passare da un sistema bicamerale “perfetto” ad uno monocamerale.
Il disegno di legge di revisione costituzionale attuale, che ha già ricevuto tre voti favorevoli in Parlamento con la precedente maggioranza, prevede la permanenza due camere con le stesse funzioni. Tanto più che si prevede l’abbassamento dell’età dei votanti e degli eletti per il Senato uniformandola a quella per la Camera.
Nel primo caso si avrebbe avuto un effettivo snellimento nel processo legislativo, evitando inutili “navette” tra Camera e Senato e il rischio di maggioranze disomogenee o di diversa consistenza, rendendo ancora più autorevole e centrale il ruolo del Parlamento.
Nel secondo caso l’unica motivazione è quella del risparmio per il bilancio statale, cosa che non c’entra niente con l’efficientizzazione della democrazia. Quindi non vi è alcuna fretta, a differenza da quanto dichiarato da Conte, perché l’iter della modifica costituzionale si concluda quanto prima con il quarto voto della Camera.
Se non per il fatto che l’eventuale referendum confermativo e le stesse norme contenute del testo di revisione costituzionale procurerebbero diversi mesi di vita garantiti all’attuale legislatura. Ma è sempre un grave errore mascherare con modifiche costituzionali quelle che sono esigenze e obiettivi politici.
Ma i problemi non si fermano qui. Non è un mistero che dietro al programma ufficiale in 29 punti del governo, esiste un accordo tra M5stelle e Pd per un’ulteriore miniriforma della Costituzione.
La novità più importante sarebbe l’istituzione della cosiddetta sfiducia costruttiva, ovvero della necessità quando viene tolta la fiducia a un governo di avere una maggioranza già pronta a sostituirlo. Ci si ispira al modello tedesco. Ma quest’ultimo ha una diversa impalcatura istituzionale. Infatti prevede che il Cancelliere venga eletto direttamente dal Bundestag, quindi si può capire che il Parlamento avendo eletto il capo del governo per sostituirlo ne debba presentare un altro.
Ma nella nostra Costituzione le cose funzionano diversamente. E’ il Capo dello Stato a conferire l’incarico al futuro presidente del Consiglio il quale si presenta per la fiducia alle Camere solo dopo avere costituito il governo e giurato davanti al presidente della Repubblica.
Nel nostro caso la sfiducia costruttiva servirebbe soltanto a inibire per l’opposizione la possibilità di sconfiggere la maggioranza. Non solo ma si potrebbe verificare il caso per cui un governo che non ha più la maggioranza continua a restare in carica perché nel Parlamento non si trova un’altra maggioranza capace di partorire un governo diverso. Non è un caso che in Germania la sfiducia costruttiva abbia dato in tanti anni un solo esito favorevole: nel 1982 quando Kohl succedette a Schmidt.
Ma il pericolo più grosso è quello che corre la futura legge elettorale proporzionale. A quanto si sa l’accordo “segreto” tra M5stelle e Pd prevede sì di abolire qualunque traccia di maggioritario, ottenendo una legge proporzionale pura, ma mantenendo e peggiorando lo sbarramento per l’accesso delle forze minori, che verrebbe addirittura elevato rispetto all’attuale fino al 4 o 5%.
Simili valori sarebbero in realtà ancora maggiori una volta dimezzati i parlamentari, e quindi la difesa del pluralismo politico verrebbe del tutto contraddetta. Con quel numero di parlamentari non ha senso apporre alcuna soglia di sbarramento oltre quella implicita data dal calcolo della attribuzione dei seggi.
Ma pur con le pesanti limitazioni previste l’affacciarsi di un progetto di proporzionale ha fatto scattare dalla sedia i padrini del maggioritario, in prima fila Romano Prodi, Walter Veltroni e il pasdaran del maggioritario Arturo Parisi.
Quello che li preoccupa oltre alla loro ostinata quanto fasulla convinzione che tutti i mali derivino dal proporzionale è la possibilità che l’ago della bilancia resti in mano ai 5Stelle, come del resto si è pubblicamente augurato Luigi Di Maio, per questa e per le prossime legislature, nella conferenza stampa susseguente al varo della nuova maggioranza di governo.
Dal canto loro Berlusconi e Salvini, momentaneamente rappacificati in un incontro a Milano, hanno sottolineato la loro opposizione all’assunzione di una legge proporzionale, convinti con il maggioritario di conquistare tutto il potere per le destre.
L’esito della vicenda diventa a questo punto incerto. Peseranno in senso negativo le divisioni interne al Pd e perfino una possibile scissione, progetto a cui Renzi non pare affatto aver rinunciato visto che la composizione del nuovo governo non lo soddisfa per niente.
Quindi se è vero che la legge elettorale la decide il Parlamento, per ottenere una legge elettorale proporzionale senza sbarramento, come logica istituzionale e costituzionale vorrebbe, specialmente una volta verificatosi il dimezzamento dei parlamentari, non bastano gli accordi tra partiti, bisogna che si apra una battaglia nel paese affinché le ragioni della governamentalità non vengano affermate a scapito della rappresentanza.
Quando questo avviene la storia ci insegna che non si hanno governi forti, ma autoritaristici. La prova Salvini ministro l’abbiamo già fatta, quella di un Salvini con pieni poteri vorremmo davvero ci venisse risparmiata.