Nel nostro paese non abbiamo un problema di debolezza dei governi, ma di perdita di ruolo del parlamento. Non v’è dubbio che gli esecutivi “durano” poco, ciò non vuol dire però che essi siano “deboli”. A ben vedere, in questi ultimi trent’anni, si è assistito ad un accentuato rafforzamento e una progressiva concentrazione dei poteri nelle mani di Palazzo Chigi. Il governo ha assorbito quasi per intero la funzione legislativa diventando ormai il vero dominus dell’attività parlamentare, il quale si limita perlopiù a ratificare quanto deciso altrove. È questo il dato di realtà dal quale bisogna partire per valutare le diverse proposte di riforma in senso presidenziale.
Una discussione che si è esclusivamente concentrata sulla esigenza di rafforzare ulteriormente il governo e la sua stabilità, senza preoccuparsi dello sbilanciamento evidente che esiste tra i poteri. Eppure, sin dai tempi di Aristotele siamo stati avvertiti che l’equilibrio appare il presupposto necessario se si vogliono evitare degenerazioni delle forme di governo, tanto più se si vuole conservare la forma democratica di Stato. Polibio già nel II secolo a. C, ci ha spiegato come il “governo del popolo” si corrompe quando le moltitudini non riescono più ad esprimere un volere razionale e diventano preda del demagogo di turno. In fondo la forma classica del populismo contemporaneo. Se allora si vogliono evitare rischi per le democrazie – che sono sempre possibili – bisogna anzitutto preoccuparsi di assicurare una rappresentanza razionale del volere del popolo e una solida divisione dei poteri.
Nel nostro paese il presidenzialismo favorirebbe il declino, decretando la definitiva eclisse del parlamento, configurando un diverso modello di governo della società fondato sul principio d’identità e non più su quello di rappresentanza. D’altro canto, la scelta del Capo – quale che ne sia la forma – finirebbe per cancellare o indebolire irrimediabilmente anche l’organo di garanzia politica previsto in costituzione: la presidenza della Repubblica, che in Italia, in un contesto di fragilità istituzionale, ha sin qui svolto una decisiva funzione di riequilibrio.
C’è seriamente da chiedersi se il nostro paese possa permettersi di fare a meno di un Presidente garante in assenza di altri solidi contrappesi, per favorire la creazione di un Presidente governante che diventerebbe l’unico centro propulsore di potere. Questo sarebbe l’esito sia nei casi di elezione diretta del Capo dello Stato (presidenzialismo o semipresidenzialismo), sia nelle ipotesi di elezione diretta del premier (secondo la formula del “sindaco d’Italia”). Quest’ultima appare la prospettiva più ipocrita e pericolosa.
Si utilizza uno slogan, facendo credere che sia possibile equiparare il governo di una qualunque città italiana e quello di un intero paese, per erodere dall’interno l’unico possibile argine alle esondazioni costituzionali di un Capo legittimato direttamente da un’acclamazione popolare, senza che possano più farsi valere solidi controlimiti istituzionali.
Uno scopo conseguito per vie traverse, non solo sottraendo al presidente della Repubblica i suoi due poteri di controllo più incisivi (nomina del governo e scioglimento delle Camere), ma contrapponendo ad un presidente dimidiato, eletto da un parlamento indebolito, un Presidente legittimato direttamente dal popolo.
Un modo per ridurre a simulacro l’inquilino del Quirinale, trasferendo sul Capo del governo i poteri di decisione ad esso spettanti. Un premierato assoluto, che non trova eguali in nessuna parte del mondo.
Chi volesse seguire la strada più rassicurante della razionalizzazione della forma di governo parlamentare dovrebbe puntare in tutt’altra direzione, aspirando a realizzare un forte riequilibrio tra i poteri.
Iniziando da una radicale riorganizzazione del parlamento per ridare ad esso vita ed autonomia. Si potrebbe cominciare dalla modifica dei regolamenti parlamentari, diventati ormai camice di forza che ostacolano il libero dibattito tra le forze politiche e costringono i singoli parlamentari a farsi, anziché “rappresentanti della nazione”, portavoce delle fazioni in campo (gruppi, correnti, corporazioni).
Si potrebbe ripensare la stessa struttura dell’attuale parlamento, per renderlo in grado di rappresentare realmente la divisone pluralista della società e proporsi come espressione unitaria della sovranità popolare.
Per far questo bisognerebbe, da un lato, adottare un sistema elettorale di stampo proporzionale e, dall’altro, avere un’unica assemblea elettiva, abbandonando l’ormai deteriorato bicameralismo paritario (divenuto un ibrido e malsano “monocameralismo alternato”). Certo, bisognerebbe anche avere partiti politici e una classe dirigente all’altezza della complessità del reale, che non si accontentino di elaborare proposte politiche solo contingenti, magari nella speranza di vincere sull’emozione del momento, senza però riuscire a dare soluzioni alle gravi e profonde trasformazioni storiche che stiamo vivendo. Bisognerebbe tornare ad affrontare le grandi questioni del tempo, ritrovando una perduta capacità di definire un progetto di liberazione dal bisogno, di attuazione dei diritti fondamentali, di emancipazione sociale.
In questo diverso scenario si potrebbe anche tornare a riflettere su come assicurare una maggiore stabilità ai governi per permettere ad essi di mantenere l’unità di indirizzo politico e amministrativo, realizzando politiche nazionali cui concorrono con metodo democratico tutti i cittadini.
Per questo basterebbero poche ma significative misure di razionalizzazione parlamentare: la sfiducia costruttiva, un’organizzazione dei lavori parlamentari che permettano al governo di far approvare alcuni disegni di legge in tempi certi (limitando così l’utilizzazione di strumenti impropri come la decretazione d’urgenza e l’abuso delle richieste di fiducia sui provvedimenti all’esame del parlamento).
Sarebbe questo un altro modo di pensare la nostra democrazia, che non si limita a scegliere il Capo, ma prova a dare forma e limiti all’esercizio della sovranità popolare. Potrebbe essere questo il difficile compito di chi vuole innovare a sinistra.