Referendum: la premier non è ostile. E la Corte?

di Massimo Villone - Ilfattoquotidiano.it - 11/01/2025
Negherà ora la Corte al popolo sovrano – quello vero – il diritto che ha riconosciuto all’inesistente popolo veneto (sent. 192/2024)? Confidiamo nella saggezza e nella prudenza dell’alto consesso.

Nella conferenza stampa del 9 gennaio della presidente Meloni cogliamo per la strategia di maggioranza la frase “per me l’importante è portare a casa le riforme e consentire agli italiani di esprimersi su queste materie”. Meloni scommette sui referendum. È possibile che consideri il vaglio popolare come elemento di legittimazione per una strategia che vuole attraverso quelle riforme “rivoltare il paese come un calzino”. Legittimazione necessaria per riforme fatte dal Parlamento meno rappresentativo della storia repubblicana, e grazie a una legge elettorale che regala alla sua coalizione minoritaria nel consenso popolare un largo vantaggio nei numeri parlamentari.

Ci dice quindi – vero o falso che sia – che non c’è un disfavore governativo avverso il referendum. E forse si trova una conferma nella notizia apparsa sulla stampa che l’Avvocatura di Stato non sosterrebbe le ragioni dell’inammissibilità nell’udienza in Corte costituzionale sul referendum abrogativo della legge 86/2024 (Calderoli), ora fissata al 20 gennaio. È possibile che Palazzo Chigi veda un prezzo politico nel sostenere l’inammissibilità di un voto popolare abrogativo, in specie quando un’altra riforma – il premierato – poggia sul dare la scelta ai cittadini piuttosto che al Palazzo con il voto sull’elezione diretta del premier. È una prospettiva in cui è preferibile che le urne referendarie siano impedite da altri: magari dalla Consulta il 20 gennaio, con lo schermo apparentemente tecnico di un richiamo ai precedenti della propria giurisprudenza. Ma un gioco delle tre carte istituzionale non può trasformare in questione tecnica un tema eminentemente politico, come certo è un voto popolare che tocca a fondo il futuro del paese. Se il 20 gennaio lo Stato si ritira dalla mischia lasciando nella trincea dell’inammissibilità solo alcune regioni del Nord, il risultato netto è porre in esclusiva sulla Corte la responsabilità di negare a 1.300.000 cittadini il diritto che hanno per l’art. 75. Si esalta un ruolo politico della Consulta costruito in una giurisprudenza che consente ad essa amplissimi margini di decisione in un senso o nell’altro.

Tre gli argomenti portati per l’inammissibilità: il collegamento alla legge di Bilancio della legge Calderoli, che la attirerebbe nella inammissibilità prevista dall’art. 75; la molteplicità e conseguente disomogeneità dei contenuti, che renderebbe la Calderoli inidonea per una scelta tutta per il sì o tutta per il no, necessaria invece a garantire la libertà di voto dell’elettore in un referendum; la supposta natura di legge costituzionalmente necessaria della legge Calderoli in quanto direttamente attuativa dell’art. 116.3. Dei tre argomenti l’ultimo è smentito dai precedenti (governo Conte-1, bozze di intesa della leghista Stefani), e dalla indubbia possibilità di stipulare intese anche senza legge-quadro. È debolissimo il primo, essendo del tutto strumentale il collegamento al bilancio per la dichiarata mancanza di un impatto sulla finanza pubblica. Debolissimo anche il secondo, perché qualunque legge minimamente complessa sarà inevitabilmente disomogenea. Non per questo si può sottrarre al referendum totalmente abrogativo ex art. 75.

Ritenere i primi due argomenti validi per la Calderoli produrrebbe effetti molto al di là della legge 86. Significherebbe consegnare a qualunque maggioranza pro tempore, attraverso un uso mirato dello strumento legislativo, la possibilità di espropriare il popolo sovrano del diritto fondamentale di partecipazione democratica garantito dall’art. 75 della Costituzione. Questo sulla base non dell’esplicito dettato della norma, ma della lettura data da una giurisprudenza costituzionale restrittiva e segnata da qualche eccesso di formalismo. Conseguenze pesanti per una scelta politica dissimulata nel tecnicismo. Soprattutto considerando che la Corte ha già avuto un ruolo nella vicenda dell’autonomia differenziata, tra l’altro cambiando una sua antica giurisprudenza. Leggiamo (sent. 256/1989 e 470/1992) che non è consentito a un referendum consultivo regionale “condizionare scelte discrezionali affidate alla esclusiva competenza di organi centrali dello Stato”, con “il rischio di influire negativamente sull’ordine costituzionale e politico dello Stato”. Il che ha consapevolmente e volutamente fatto il referendum veneto del 22.10.2017, sempre citato da Zaia. Fu consentito dalla sent. 118/2015, e certo era sopravvenuto il nuovo Titolo V nel 2001. Ma l’antico argomento preclusivo del referendum regionale sarebbe stato valido anche nel nuovo regime, se la Corte avesse voluto.

Negherà ora la Corte al popolo sovrano – quello vero – il diritto che ha riconosciuto all’inesistente popolo veneto (sent. 192/2024)? Confidiamo nella saggezza e nella prudenza dell’alto consesso.

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