L’Italia, quella dilaniata dalle quattro mafie e dal malaffare, ha scelto di mettere in campo l’esercito. Non per strada, nei quartieri, nelle piazze, nei palazzi (e negli uffici lussuosi) che si trovano sotto il controllo di clan e affiliati. Ma per mare, contro le navi che salvano esseri umani, ossia donne, uomini, bambini che si portano dietro le ferite e le violenze subite in Libia e durante il viaggio. Navi militari a difesa dei confini, schierate contro dei volontari che hanno scelto di non voltarsi dall’altra parte. Donne e uomini di varie parti d’Italia e d’Europa, gente che ha scelto di metterci il corpo, per usare una definizione dello scrittore Sandro Veronesi, di rischiare in prima persona per difendere un principio umano, un valore irrinunciabile. Le navi militari, dunque, schierate contro la legge del mare, i salvataggi, la solidarietà. Farebbe ridere, se non fosse che tutto questo è drammatico, perché ciò che in un racconto sarebbe farsesco oggi è diventato realtà politica. Non solo italiana purtroppo.
La Germania, ad esempio, quella che ha dato i natali alla Capitana Carola, a quella ragazza che ha saputo mettere a nudo la pochezza della politica italiana e di quella europea, ha scelto di stringere il cappio sui migranti. La Germania che accolse i siriani, i profughi di una guerra con responsabilità diffuse, ha da poco approvato un pacchetto che soffoca i diritti dei migranti, con espulsioni più rapide, aumento dei periodi detentivi, perquisizioni senza mandato. Anche la Spagna del socialista Sanchez ha dichiarato guerra alle Ong, con multe salatissime per chi conduce i migranti in salvo sulle coste spagnole, come denunciato da Open Arms. Insomma, l’Europa si chiude. Difende il proprio benessere conquistato con il sangue delle popolazioni che oggi bussano per poter avere almeno una briciola, un avanzo di quello che gli è stato sottratto. O quantomeno per poter sfuggire alla morte, agli stupri, alle torture, alle persecuzioni.
Le leggi internazionali danno ragione a chi scappa, ma gli stati nazionali, infarciti da una propaganda tetra che si diffonde da ovest ad est, non sentono. E reagiscono con la repressione. Contro le vittime e perfino contro chi si mostra solidale. Come se il migrante, colui che scappa dall’inferno, fosse un reietto, una sorta di nemico da colpire, da sparare a vista, come dentro una guerra di trincea. E non basta ferirlo, ucciderlo. No, gli stati europei e l’Italia vogliono negare anche il soccorso o la sepoltura. Vogliono cancellarne l’identità, l’esistenza, disconoscerlo come essere umano. Annientarlo. In questo atteggiamento sta tutta la similitudine con le logiche naziste del Novecento. Si è scelto un nemico, il più facile da colpire, il meno capace di difendersi, la gente comune, esseri umani che non hanno armi o mire violente, ma profughi, disperati, famiglie spezzate dalla violenza di aguzzini sadici e glaciali.
Si è scelto un nemico e lo si vuole annientare. A costo, chissà, di cannoneggiare le imbarcazioni con le quali provano a salvarsi dall’orrore. Prima era solo una battuta ignobile di fasciorazzisti da balera, ora rischia di diventare una strategia possibile. Una estrema ratio che magari qualcuno trasformerà in legge, sfruttando il letargo complice e misero di un Capo dello Stato che somiglia tanto all’ultimo sovrano dell’Italia pre-repubblicana. Hanno dichiarato guerra ai poveri, agli ultimi, ma anche alle generazioni migliori di questo continente. Hanno dichiarato guerra alla solidarietà, alla non violenza, al pacifismo. E hanno messo in campo persino le navi militari, i burocrati più ottusi, qualche graduato della Gdf e qualche prefetto inclini all’inchino e al baciamano. Hanno schierato le forze dell’autorità. Come fecero a Genova, nel 2001.
Chi aveva 20-30 anni all’epoca sa bene cosa significa Genova. Qualcuno ha saggiamente scritto che in quel momento venne tolta la voce a un paio di generazioni. Con la macelleria di Stato, con i morti per terra si silenziò la coscienza migliore di questo Paese e di questo continente. Si misero a tacere le istanze pacifiste, solidali, ambientaliste, culturali di giovani che avevano avuto la forza di uscire dalla palude sterile e dalle camere ovattate degli anni ‘80. Dopo Genova si è smarrito un patrimonio immenso, umano, morale, culturale, sociale. Ma non sono, non siamo morti. A volte viene da chiedersi dove sono finiti tutti, se hanno superato il dolore, fisico e psicologico di quei giorni. Se hanno paura, se hanno alzato bandiera bianca davvero o se sono solo in attesa. Se sono pronti a ripartire, oggi che qualcuno dichiara di nuovo guerra, non a uno Stato, ma alla solidarietà. All’umanità migliore. E ai disperati.
Luca Casarini è ancora lì, ci ha messo il corpo, non ha lasciato andare via le idee e il sogno di un mondo migliore. Dove sono gli altri? Dove sono e dove siamo finiti? Abbiamo ancora paura che ci tolgano la voce o possiamo pensare di rialzarla nuovamente e di urlare perfino più forte? Dove sono le piazze da invadere con le rivendicazioni e con migliaia di gambe giovani e meno giovani? Siamo in guerra signori. E le parti sono ben definite. Non esistono vie di mezzo, né scappatoie per sottrarci. A meno che non pensiamo che standocene da parte o accomodando la nostra indignazione sui tasti di un pc o di uno smartphone, la storia ci passerà silenziosamente davanti senza disturbare. Non sarà così. Siamo tutti coinvolti. E sarebbe ora di non pensare alla nostra assoluzione, ma di metterci insieme, per strada, per mare, davanti ai porti.
Studenti, attivisti, intellettuali, lavoratori solidali come i portuali di Genova, giornalisti indipendenti, avvocati, magistrati dissenzienti, militari non fedeli alla linea, pescatori, marinerie, marinai, cittadini ancora degni di questo nome. Le parti sane di questo Paese devono difendere quella democrazia che qualcuno vuole spazzare via. Devono, dobbiamo farlo subito. A qualsiasi costo, anche personale. Per strada e per mare. Il tempo è quasi scaduto e nascondersi dietro il coraggio altrui non ci rende meno responsabili, ma solo un po’ più codardi.