La rielezione di Mattarella, esaltata da molti di quelli che all’interno dei partiti e di gran parte dei media sostenevano come “naturale” l’ascesa al Quirinale di Draghi, eviterà a breve l’apertura di una crisi di governo e lo scioglimento delle Camere, ma non risolverà la crisi dei partiti che inevitabilmente si riflette sul funzionamento del raccordo tra Parlamento e Governo. Certo, la figura di Mattarella appare come rassicurante per le modalità con cui ha esercitato il primo mandato. Si può discutere sulla nascita del governo Draghi, avvenuta senza rinvio al Parlamento del governo Conte due che aveva ottenuto la fiducia delle Camere e senza consultazioni dei partiti. Tuttavia l’iniziativa del Presidente è stata di fatto incoraggiata anche dal PD e dai 5 Stelle, che non hanno più ventilato la fine della legislatura come conseguenza della crisi di governo e hanno poi sostenuto la soluzione di un esecutivo di larga unione che, per usare le parole di Mattarella, non dovesse “identificarsi con alcuna formula politica”. Si può quindi confidare che la rielezione non comporterà una torsione presidenzialista del ruolo del Capo dello Stato. Tuttavia, come lo stesso Mattarella ha più volte sostenuto ribadendo la sua volontà di concludere l’esperienza al Quirinale, quattordici anni in una Repubblica democratica sono troppi e, insieme alla mancata previsione di qualsiasi limite alla rieleggibilità, non hanno eguali in altre democrazie. Inoltre la rielezione successiva di due presidenti, se non dà vita ad una consuetudine costituzionale, spinge comunque a considerare come normale un’evenienza che può incoraggiare il Presidente uscente a ricandidarsi e a far valutare come una sanzione politica la sua non rielezione. Ancora più negativo è prefigurare una presidenza a termine, magari individuato nella fine della legislatura, che sta fuori dalla Costituzione e non potrebbe essere giustificato dalla elezione di un nuovo Parlamento numericamente ridotto o dal risultato elettorale, che non scalfirebbero la legittimazione del Presidente in carica il quale per la durata del mandato deve necessariamente convivere con più governi e con diverse maggioranze parlamentari. Piuttosto sarebbe necessario che il Parlamento approvasse con legge costituzionale il divieto di rieleggibilità del Presidente, insieme all’abolizione del “semestre bianco”, per cui negli ultimi sei mesi del mandato non gli è consentito lo scioglimento delle Camere.
La rielezione di Mattarella non era affatto programmata, ma è derivata dall’attitudine autodistruttiva del centro-destra e dalla passività del centro-sinistra. Per la prima brilla la “candidatura” di Berlusconi, privo di numeri e mancante di qualsiasi presupposto morale e civile per poter essere eletto, e la successiva proposta di personalità di area, fino alla “bruciatura” della Presidente del Senato, che per la carica rivestita ha commesso una grave scorrettezza nell’accettare di essere candidata da uno schieramento politico. Quanto all’attendismo del centro-sinistra ha pesato la candidatura di Draghi, che ha avuto forti sostenitori nel PD e nei 5 Stelle, oltre che all’interno della Lega e dei vari partiti di centro. L’autocandidatura avanzata nella conferenza-stampa di fine dicembre e giustificata con l’incredibile argomento che i compiti attribuiti al Governo erano stati portati a termine, ha posto problemi enormi. Innanzitutto avrebbe sancito il potere della tecnocrazia, mettendo fuori gioco non solo la politica, ma anche la democrazia rappresentativa. Non a caso l’elezione di Draghi è stata giustificata con l‘attribuzione al nuovo Presidente della guida del Governo (il cosiddetto “semipresidenzialismo di fatto” evocato da Giorgetti), ipotesi che avrebbe violato apertamente la Costituzione. Né era più convincente l’opposta giustificazione, che ha fatto qualche breccia anche a sinistra, per cui lo spostamento di Draghi al Quirinale avrebbe aperto la strada a una riappropriazione del Governo da parte della politica, non si vede con quale Presidente del consiglio e quale programma concordati dai partiti di una maggioranza così eterogenea. La verità, da subito avvertita e temuta da molti parlamentari, è che l’elezione di Draghi avrebbe comportato la crisi del Governo e il probabile scioglimento delle Camere (e per questo è stata sostenuta dalla Meloni). Infine per la prima volta il tecnico posto alla testa del Governo sarebbe traslocato al Quirinale (il che non si può dire per Ciampi, personalità politica proveniente dalla Resistenza e dal partito di azione e divenuto Presidente quando non era più alla guida dell’esecutivo), ponendo delicati problemi costituzionali. Chi sarebbe stato il supplente, visto che la legge 400/1988 prevede che sia il ministro più anziano “in assenza di diversa disposizione da parte del Presidente del Consiglio” solo per l’ipotesi di “assenza o impedimento temporaneo” di quest’ultimo? Chi avrebbe controfirmato il decreto presidenziale di accettazione delle dimissioni non potendo essere il Presidente del Consiglio uscente divenuto Capo dello Stato, carica incompatibile con qualsiasi altra?
In definitiva la rielezione di Mattarella è derivata dalla incapacità dei leader e dei gruppi dirigenti dei partiti di concordare una personalità da eleggere con ampia maggioranza, è stata favorita dal comportamento autolesionistico di Draghi nella presentazione della sua candidatura e con le pressioni rivolte ai leader di partito durante le votazioni, è stata voluta dalla maggioranza dei parlamentari anche al di là delle indicazioni dei vertici dei propri partiti per ragioni al contempo di sopravvivenza e di reazione al rischio di una tecnocrazia imperante, come è dimostrato dalla crescita progressiva dei voti a favore di Mattarella dalla terza votazione in poi.
Due sono le questioni alle quali Mattarella dovrà fare fronte. La prima è politica e attiene alle indicazioni emerse nel discorso del Presidente in occasione del giuramento del 3 febbraio di fronte al Parlamento. Si è parlato di “agenda Mattarella” e le capigruppo parlamentari del PD hanno indirizzato una lettera ai Presidenti di Camera e Senato per chiedere che sia oggetto di dibattito parlamentare. Ma il problema, al di là del ringraziamento formale rivolto al governo in carica, è che alcune delle più significative finalità indicate dal Presidente, come quelle relative al rispetto del ruolo del Parlamento “come luogo della partecipazione”, alla denuncia dell’intervento invasivo dei “poteri economici sovranazionali” che aggirano la democrazia, alla tutela del lavoro, alla lotta contro le diseguaglianze, la povertà e la precarietà, al diritto allo studio, alla emarginazione e alla violenza contro le donne, alla difesa della vita e della dignità dei migranti, all’economia sostenibile, non trovano corrispondenza nelle politiche del governo Draghi, caratterizzate dal ricorso massiccio a decreti-legge e voti di fiducia con la conseguente compressione della libertà e dei tempi del Parlamento, dallo sblocco dei licenziamenti, dalla riduzione della progressività dell’Irpef, da misure per la ripresa economica che aumentano l’occupazione precaria e sottopagata, da una riforma peggiorativa del reddito di cittadinanza, dalla scarsità delle risorse per sanità e occupazione, dalla riesumazione del nucleare e del gas come “energie rinnovabili” e così via. Occorrerebbero quindi politiche volte a dare attuazione alle finalità indicate da Mattarella, ma che, se conseguenti, sarebbero certamente divisive di una maggioranza eterogenea come quella che sostiene il governo Draghi. E ciò si verificherebbe con ogni probabilità anche per la riforma della giustizia che dovrebbe determinarne un funzionamento più efficace e non condizionato dal correntismo, ma viene intesa da alcune parti politiche come una vendetta contro la magistratura e con l’obiettivo di una compressione del ruolo del CSM, l’organo che deve garantirne l’autonomia e l’indipendenza.
La seconda questione che si porrà è costituzionale e riguarda la riproposizione di un cambiamento della forma di governo in senso presidenziale. Alcuni sostengono come ineluttabile l’elezione popolare diretta del Presidente sulla base di sondaggi che registrano l’opinione favorevole di più di due terzi degli italiani. Due considerazioni si impongono: in primo luogo farsi dettare le riforme costituzionali dall’esito di sondaggi contingenti è un errore, la cui strumentalità risulta evidente quando proviene da chi ha voluto l’attuale sistema elettorale fondato sulle liste bloccate che tolgono agli elettori la possibilità di scegliere i propri rappresentanti; in secondo luogo è evidente che l’elezione popolare diretta ha senso solo se inserita in una riforma organica che cambierebbe in profondità il testo della Costituzione. Ma a ciò ostano due obiezioni principali. Innanzitutto sarebbe pericoloso rinunciare a un Presidente rappresentante dell’unità nazionale e garante della Costituzione a favore di uno di parte e esponente della maggioranza. Vi sarebbero altissimi rischi di conflittualità esasperata e di indebolimento di tutti i contrappesi, a cominciare dalla Corte costituzionale composta per un terzo da giudici nominati dal Presidente. Va poi considerata la tendenza ricorrente nella società italiana di andare alla ricerca di un “uomo della provvidenza” o, se si preferisce, di un decisore supremo che inevitabilmente darebbe il colpo di grazia al ruolo dei partiti e a quello, già gravemente pregiudicato, del Parlamento. Anche il sistema di governo francese ripetutamente evocato dai presidenzialisti nostrani ne costituisce una riprova: di fatto esso funziona come un sistema iperpresidenziale, caratterizzato da ultimo dallo stato comatoso del sistema dei partiti della Quinta Repubblica e dal crollo della partecipazione popolare alle elezioni parlamentari (che nel 2017 è stato inferiore al 50% al primo turno ed è calato a meno del 43% al secondo turno).
Certo, Mattarella per carattere e cultura costituzionale può essere un antidoto al presidenzialismo. Ma già risuonano le sirene che vedono nel Quirinale il cuore della politica. Occorre allora che il Presidente rieletto sia un “patriota”, ma non del nazionalismo e dell’antieuropeismo come vorrebbe la Meloni, ma della Costituzione e quindi vigilante sul rispetto e sull’attuazione dei principi e valori ai quali ha fatto riferimento nel suo discorso al Parlamento.