Ma perché Nicola Zingaretti non schiera il Pd come un sol uomo contro la secessione dei ricchi, l’autonomia differenziata con cui Salvini vuole spezzare l’Italia e mettere le mani su educazione e territorio? Certo, la riforma pre-secessionista del titolo V della Costituzione l’ha fatta il Centrosinistra nel 2001; gli scellerati patti separati con le tre regioni secessioniste li ha firmati Gentiloni.
E una di questa è l’Emilia Romagna dem. Ma c’è qualcosa di più: un movente difficilmente confessabile. Cherchez la femme, diceva Dumas; seguite i soldi, dicono gli investigatori. Tenete d’occhio il cemento, si deve rispondere a chi chiede di capire i misteri della politica italiana.
Già perché Zingaretti non è solo il ‘nuovo’ segretario del Pd: è anche, da sei lunghi anni, il presidente della Regione Lazio. E non c’è nulla capace di spiegare un uomo, quanto il modo in cui quell’uomo esercita il potere.
Fin dalla conferma, e anzi dal sostanziale peggioramento, del già orrendo Piano Casa della Polverini, è stato evidente che Zingaretti stava dalla parte del cemento (e le conseguenti demolizioni dei villini romani del primo Novecento lo dimostrano).
Ma è solo negli ultimi giorni che si è capito fino a che punto. È stato la meritoria associazione Carte in Regola a svelare all’opinione pubblica che la giunta di Zingaretti sta varando (insieme all’opposizione: un partito unico del cemento cui ha votato contro solo il Movimento 5 stelle) un Piano Paesaggistico Territoriale Regionale (Pptr) svincolato da ogni controllo del Ministero per i Beni Culturali.
È dal 1999 che la Regione Lazio si è impegnata a collaborare con i Beni Culturali per arrivare a questo Piano: ma ogni volta che si è provato a varare un piano condiviso, alla fine tutto si è incagliato su Roma. Sulla capitale è più forte la pressione della speculazione edilizia, e proprio per questo il Ministero chiedeva di stabilire insieme una rete di vincoli: ma nessuna giunta è stata abbastanza indipendente dai signori del cemento. E oggi Zingaretti getta definitivamente la spugna: grazie a un emendamento di tre consiglieri di maggioranza (con l’esplicito consenso dall’assessore all’urbanistica) nella versione del Pptr che sarà verosimilmente approvata la prossima settimana, si legge che le norme di tutela contenute nel Piano non si applicano al centro di Roma. Una clamorosa resa ai palazzinari: di cui si veniva a conoscenza nelle stesse ore in cui il soprintendente di Roma, Francesco Prosperetti, era rinviato a giudizio per traffico di influenze nello scandalo dello Stadio della Roma.
Ma come è possibile, si chiederà il lettore, che una simile porcata venga fatta passare da quel Ministero per i Beni Culturali che da anni cerca invano di sedersi a un tavolo con la Regione Lazio per fare insieme il Piano? Molto semplice: Zingaretti si è fatto in casa la sua autonomia differenziata all’amatriciana. E cioè sta approvando il Pptr senza dir nulla al Ministero. Ha dunque riesumato il Piano pronto nel 2007, buttando a mare tutte le osservazioni fatte in questi dodici anni dalle Soprintendenze laziali: che riguardano ben 445 casi di scempi territoriali.
La cosa ha del clamoroso, anche perché nel 2013 il presidente del Lazio firmò un protocollo di intesa con l’allora ministro per i Beni Culturali Massimo Bray in cui si impegnava a collaborare per adeguare il Piano al Codice dei Beni culturali: quel presidente era già Nicola Zingaretti.
Per fortuna il direttore generale delle Belle Arti, Archeologia e Paesaggio Gino Famiglietti (che, per disgrazia del Paese e gioia dei palazzinari, va in pensione dopodomani) si è accorto della mina innescata, e ha scritto una lettera ufficiale al ministro Bonisoli per informarlo che se l’8 agosto il Consiglio regionale approverà il Pptr, violerà il principio di leale collaborazione tra istituzioni, e soprattutto violerà la legge. Dal 2008, infatti, il Codice dei Beni Culturali (articolo 135, comma 1) proibisce alle Regioni di pianificare da sole (cioè senza il Mibac) proprio riguardo ai vincoli sul paesaggio. Se davvero Zingaretti arrivasse a tanto, il Piano del Lazio sarebbe illegittimo, e Bonisoli avrebbe il dovere di impugnarlo in ogni sede.
Questo episodio dimostra ancora una volta che l’antico assedio giuridico e politico alla “Repubblica” menzionata all’articolo 9 della Costituzione (che si è voluta intendere come riferita anche alle autonomie locali) non si è condotto in nome del diritto dei cittadini ad una maggior partecipazione nella difesa di questi loro beni comuni, ma, al contrario, in nome del consumo di quei beni: insomma, si è colpita la parola “Repubblica” per affondare la parola “tutela” dello stesso articolo. Ed è ancora questa la vera cifra dell’autonomia differenziata di Lega e Pd. Se Bonaccini schiera l’Emilia Romagna accanto al Veneto e alla Lombardia leghisti, la chiave è nella mostruosa legge urbanistica regionale che ha fatto approvare: una sorta di bomba libera tutti per il cemento. Se Zingaretti non fiata contro la stessa autonomia differenziata, è perché la sta già di fatto attuando nel Lazio. Il segretario del Pd ha ancora una via d’uscita: quattro consiglieri della sua maggioranza (Capriccioli, Leonori, Bonafoni e Ciani) hanno presentato insieme ai Cinque Stelle un emendamento che accoglie un testo proposto da Carte in Regola per vincolare il centro storico e i tessuti urbanistici di pregio di Roma. Se Zingaretti non lo accogliesse, e se dunque Roma venisse lasciata senza vincoli, saremmo di fronte ad un caso clamoroso: in cui i piani per il territorio diventano i piani dei palazzinari.