L'editoriale di Libero del 15 marzo assegna al governo Meloni una missione "dettata dalla storia: fare le riforme". Ma l'altissimo compito non previene la rissa. Calderoli vorrebbe dimenticare Sardegna e Abruzzo chiudendo sull'autonomia differenziata in tempi brevi. I partners - Meloni in testa- frenano. E prevalgono, se anche il Corriere del Veneto, megafono degli autonomisti, ci informa che fino al voto europeo l'autonomia rimane ai box (16 marzo).
Che pensare? In campo, due linee di riforma. Nel gergo dei costituzionalisti, una sulla forma di governo (premierato), l'altra sulla forma di stato (autonomia differenziata).
Insieme, investono la struttura politica e istituzionale dalle radici ai rami più alti.
Sentiamo l'eco dello slogan elettorale di Meloni: rivoltare il paese come un calzino. Non rileva che per una si richieda la legge costituzionale, e per l'altra invece basti secondo l'art. 116.3 della Costituzione una legge ordinaria rinforzata. In sintesi, in soffitta la Costituzione del 1948, avanti la Costituzione della destra. È l'obiettivo politico di Giorgia Meloni.
Due considerazioni. La prima: in parlamento con le regole e le prassi vigenti è variabile decisiva la compattezza della maggioranza. Se la maggioranza tiene, le opposizioni possono ritardarla, non fermarla. La seconda: non si risponde con l'accusa di violare la Costituzione. Se la controparte punta a un cambiamento radicale, l'accusa di violazione può solo certificarne il successo.
Mattarella, affermando che l'Italia che non è sommatoria di repubbliche, coglie che il punto focale è la frammentazione del paese. A ben vedere, è l'autonomia differenziata la vera madre di tutte le riforme. Non pochi sostenitori del premierato si affannano ad argomentare che poco cambia in concreto rispetto all'esistente.Nessuno potrebbe dire lo stesso per l'autonomia differenziata. Forse
qualcuno ricorda che la riforma Berlusconi Bossi del 2005 (si legge nel testo poi bocciato dal voto popolare in G.U. 269 del 18.11.2005) da un lato sopprimeva l'art.116.3, dall'altro attribuiva alla potestà legislativa esclusiva delle regioni sanità e scuola. Che erano - come oggi - obiettivi primari
per i leghisti. Ma c'era consapevolezza del rischio dissolutivo posto dall'art. 116.3 e dall'autonomia differenziata.
Molto si parla di strategie referendarie di contrasto. Ma l'unico referendum di cui si può essere ragionevolmente certi è quello ex art. 138 Cost. sul premierato a iniziativa di un quinto dei parlamentari, sempre che si riesca a evitare la maggioranza di due terzi in seconda deliberazione. In ogni caso, un voto improbabile prima del 2026.
Mentre sull'autonomia il referendum (abrogativo, ex art. 75) sarebbe probabilmente inammissibile, per il ddl Calderoli e per le successive leggi approvative di intesa con le singole regioni.
Il punto rilevante è che si potrebbe giungere a forme significative di autonomia differenziata, con trasferimento di funzioni e risorse, molto prima dell'eventuale referendum sul premierato. Per questo, gli strumenti per contrastare da subito il ddl Calderoli e le leggi approvative di intese sono i ricorsi di una o più regioni alla Corte costituzionale, immediatamente esperibili. Il punto decisivo non è individuare ciò che va trasferito alle regioni. Piuttosto, va definito il perimetro di quello che deve comunque rimanere allo stato, per le politiche nazionali necessarie. La tempistica può essere cruciale, anche perché non siamo certi che la strategia leghista sia tutta disvelata.
Davvero si vuole frammentare il paese in staterelli semi-indipendenti, tra i quali il maggiore - la Lombardia - non supererebbe su scala europea il Portogallo, mentre Veneto ed Emilia-Romagna non raggiungerebbero la dimensione della piccola Danimarca?
Sarebbe un'Italia più competitiva? No, e poco conta quel che fa Milano con gli Assolombarda Awards.
Per questo pensiamo che l'obiettivo del leghismo di oggi potrebbe essere un remake di quello di ieri: una macroregione costruita sull'art. 117.8 della Costituzione, per cui " la legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni". Nella riforma Berlusconi-Bossi lo vediamo corretto con "funzioni amministrative" e "organi amministrativi". Qualche struttura tecnica in comune, o poco più. Qualcuno, a destra, aveva avvertito il rischio di un parlamento del Nord, o di un direttorio dei governatori del Nord. Potrebbe succedere, oggi più di ieri.
Che sarebbe del parlamento nazionale, e del primo ministro assoluto vagheggiato da Giorgia Meloni? E dell'unità d'Italia?