Dazi inderogabilmente al 10% a tutti i Paesi, con i cattivi puniti in specie con dazi commisurati a circa il 50% del livello da ciascun Paese adottato verso gli Stati Uniti. Essendo a tutti riconosciuto uno sconto perché – dice Trump – qualcuno dovrebbe dispiacersi? Troviamo tra i cattivi Cina (67% e 34%), Taiwan (64/32), Giappone (46/24), Corea del Sud (50/25), Vietnam (90/46), India (52/26). Tra i buoni Uk (10/10). E l’Europa? “They ripped us off”, ha detto presentando le tariffe. Tradotto: “Ci hanno fregato”. Misura i dazi europei al 39% (includendo l’Iva che dazio non è), e con il benevolo sconto pone i suoi al 20%.
Così parlò Trump. Le prime reazioni sono negative. Il dollaro affonda, l’oro sale. È diffusa la previsione che gli effetti in Usa saranno rallentamento dell’economia e aumento dei prezzi. Lo riferiscono anche giornali non antagonisti, come il Wall Street Journal che riporta l’auspicio di un negoziato, pur al momento negato da esponenti dell’amministrazione. È presto per dire se Trump punti o no a una strategia negoziale. Ma ci sono effetti da subito. In Europa la risposta – retaliation e non revenge, secondo Von der Leyen – diventa quasi obbligata. Anche volendo negoziare, non si va al tavolo dando ragione alla controparte. Quindi è probabile la contestazione dei dazi Usa e l’adozione di misure contrapposte e comparabili. In Italia, lo spazio per equilibrismi separati di Meloni si azzera. Il negoziato dovrà essere europeo, e la protezione per gli interessi italiani dovrà essere mediata in Ue e inglobata nella proposta Ue, anche nella prospettiva di mantenere nel Paese i nostri presidi produttivi. Decisiva sarà comunque la capacità di Trump di mantenere pressione e iniziativa evitando la condizione di lame duck (“anatra zoppa”) president data dalla impossibilità di ricandidarsi. Per questo è essenziale per lui l’elezione di midterm del 2026 per confermare al Congresso la maggioranza repubblicana che oggi non contrasta i suoi eccessi, con buona pace del sistema di checks and balances. La domanda cruciale è dunque se manterrà il consenso interno nei prossimi mesi. Un consenso che la sua politica economica, i dazi, i licenziamenti di massa di dipendenti pubblici e la chiusura/riduzione di programmi federali sensibili fanno scricchiolare.
Gestire il consenso. Questo spiega la violenta normalizzazione di amministrazioni federali e l’attacco ai media non allineati. Ancor più spiega i tagli miliardari ai fondi federali per Harvard, Princeton, Columbia, storici presidi culturali e di formazione di opinione pubblica liberal. L’accusa di antisemitismo è strumentale. Lo dimostra l’arresto in vista della deportazione di una dottoranda di origine turca colpevole solo di aver co-firmato un articolo a stampa sul “genocidio” di Gaza. Certo è un’altra America rispetto a quella che in Corte suprema riconosceva come free speech bruciare la bandiera (Texas vs Johnson, 1989). E ancora si spiega l’attenzione nazionale per vicende che normalmente sarebbero rimaste essenzialmente locali. Tale è stata l’elezione alla Corte suprema del Wisconsin di una giudice liberal contro un candidato sponsorizzato direttamente da Trump e soprattutto da Musk con un fiume di dollari elargiti anche in modi assai discutibili. La grande stampa (New York Times, Washington Post, Wall Street Journal) ha visto una doppia sconfitta, per Trump e Musk.
Proprio per esorcizzare lo scenario lame duck, Trump dice di pensare “seriamente” a un terzo mandato. La Costituzione Usa gli vieta di ricandidarsi (XXII em.), anche come vicepresidente in un ticket con un presidente compiacente chiamato poi a dimettersi per essere da lui sostituito (XII em.). Una riforma sarebbe per Trump impraticabile, richiedendo una maggioranza di 2/3 in ciascuna Camera e l’approvazione di 3/4 degli Stati. Ma Trump guarda al Presidential Succession Act del 1947, fondato sull’art. II.1.6 della Costituzione, che disciplina la successione nel caso in cui presidente e vicepresidente vengano meno entrambi. Elenca in ordine: speaker della Camera dei rappresentanti, presidente del Senato, segretario di Stato e a seguire altri membri dell’esecutivo. È chiaro che Trump potrebbe candidarsi per il Congresso e puntare alle cariche di vertice, o entrare nell’esecutivo nominato da un presidente repubblicano. Giungendo al trono dopo le dimissioni del presidente e del vicepresidente e di chiunque altro eventualmente lo precedesse nell’ordine di successione. Sarebbe la prima volta in assoluto nella storia degli Usa. Fattibile? Oggi, tutte le cariche previste dal Presidential Act sono in mani repubblicane.
Forse Meloni per guadagnare qualche spicciolo per l’Italia potrebbe far presente a Trump che, nel nostro piccolissimo, abbiamo un copyright sul terzo mandato. Ma lei è contraria…