Tutti gli errori nella gestione della pandemia

di Vittorio Agnoletto - micromega.net/ - 29/09/2021
Un’analisi scientifica delle ragioni del fallimento nel contrasto al Covid oltre le contrapposte tifoserie della narrazione governativa e delle tesi No vax

Secondo i dati aggiornati al 24 settembre 2021 l’Italia, con oltre 130.000 morti, è al nono posto come numero totale di decessi per Covid ufficialmente registrati (fonte OMS). La Lombardia, con 33.981 decessi (fonte Ministero della Salute – Istituto Superiore di Sanità 18/9/2021) su una popolazione di 10milioni, se fosse una nazione indipendente, come era negli obiettivi di Umberto Bossi qualche decennio fa, sarebbe al secondo posto come numero di decessi per Covid ogni 100.000 abitanti, superata solo dal Perù, il cui Servizio Sanitario non può certo essere confrontato con quello lombardo.

So bene che il sistema di registrazione cambia da Paese a Paese e che in nazioni come l’India, solo per fare un esempio, le cifre probabilmente sono ampiamente sottostimate; sono altrettanto consapevole che non è scientificamente corretto confrontare i dati di una regione con i dati di intere nazioni, ma credo che un confronto simile, fuori dall’ambito accademico, ci sia utile per comprendere la gravità dell’impatto che la pandemia ha avuto e tuttora ha, in Italia, ma soprattutto in Lombardia. Le giunte di destra che dall’epoca di Formigoni, dal 1995, governano ininterrottamente la regione, hanno sempre celebrato la sanità lombarda come la migliore in Italia e tra le eccellenze europee, ma il fallimento nel contrasto al Coronavirus è sotto gli occhi di tutti.

Le ragioni di questo disastro sono uno dei temi principali del mio libro “Senza Respiro. Un’inchiesta indipendente sulla pandemia Coronavirus, in Lombardia, Italia, Europa” (Altreconomia, 2020); in questa sede, per questioni di spazio, non posso soffermarmi sulle ragioni di questa Caporetto ma solo citarne alcune: la distruzione della medicina territoriale, la riduzione ai minimi termini dei servizi di prevenzione, l’ignoranza sul ruolo dell’epidemiologia, l’enorme peso della sanità privata nel Servizio Sanitario Regionale, una gestione del Servizio Sanitario pubblico condotta secondo le logiche, gli obiettivi e gli interessi di un Sevizio Sanitario privato ed infine una medicina centrata in gran parte sulle cure d’eccellenza, innovative ed estremamente costose, che non solo ha ignorato ogni forma di medicina di comunità e di continuità assistenziale, ma ha anche prosciugato le risorse da destinare all’assistenza sanitaria quotidiana dell’insieme della popolazione.

La vicenda lombarda rappresenta il trionfo del neoliberismo applicato alla sanità, nonostante ciò, fino all’inizio della pandemia la grande maggioranza delle forze politiche nazionali, non solo di centrodestra, prendeva tale modello come esempio da esportare in altre regioni e a livello nazionale. Per questo motivo sarebbe stato fondamentale ragionare sulle ragioni del fallimento lombardo, così come sugli errori commessi a livello nazionale, per correggere velocemente la rotta, ma purtroppo non sembra questa la direzione intrapresa.

La scienza e i diritti contro le tifoserie

Il dibattito attorno alla pandemia in Italia è stato trasformato in un rodeo con due tifoserie contrapposte incitate all’odio reciproco: da un lato la narrazione ufficiale gestita dal governo e supportata acriticamente dai suoi apparati tecnico-scientifici, dall’altro il racconto che rimbalza dai numerosi siti no-vax. Non credo di essere l’unico a trovarsi fortemente a disagio di fronte a questa semplificazione nella quale ci viene intimato da ambedue le parti: o sei con noi o sei contro di noi.

Sono convinto che esista uno spazio per una posizione che si attenga alle evidenze scientifiche, che sia in grado di valorizzare gli insegnamenti pluridecennali che provengono dai corsi di specializzazione in sanità pubblica, che mantenga fede all’idea della salute come diritto fondamentale di ogni essere umano e al progetto di un Servizio Sanitario Nazionale (SSN) universale.

Nell’intento di contribuire a costruire questo spazio, mi limito ad elencare schematicamente, anche per ragioni di lunghezza, alcuni dei principali limiti ed errori che caratterizzano la gestione dell’attuale fase pandemica.

I principali errori

1. La vaccinazione è uno strumento fondamentale e per questo motivo, in una condizione pandemica, per raggiungere la massima efficacia è necessario renderla disponibile nel minor tempo possibile in tutto il mondo; l’Oms ha segnalato l’insostenibilità di un sistema nel quale 10 nazioni hanno acquistato il 75% delle dosi di vaccino disponibile a livello mondiale, con il risultato che nei Paesi a basso e medio-basso reddito la percentuale delle persone vaccinate varia dal 1,9 al 4%; ne consegue che non solo in quelle nazioni aumenterà incessantemente il numero dei morti, ma anche che il virus continuerà a diffondersi, si moltiplicherà, emergeranno delle varianti maggiormente aggressive destinate ad arrivare anche nei nostri Paesi e noi non sappiamo quanto i vaccini, dei quali disporremo in quel momento, saranno in grado di contrastarle.

Da queste ragioni, se non in nome della solidarietà, almeno in nome di un “sano egoismo”, come ha dichiarato il prof. Silvio Garattini, nasce l’urgenza di appoggiare la proposta di moratoria temporanea sui brevetti per i vaccini, i kit diagnostici e la condivisione del know-how, avanzata da India e Sudafrica all’Organizzazione Mondiale del Commercio e appoggiata da oltre cento Paesi; per questo oltre centoventi associazioni, tra le quali tutte le organizzazioni sindacali italiane, stanno sostenendo la raccolta di un milione di firme a livello europeo attraverso lo strumento dell’ICE (Iniziativa dei Cittadini Europei) che, una volta raccolte le firme necessarie, obbligherà la Commissione Europea a sottoporre le nostre proposte alla discussione e al voto delle istituzioni europee: Parlamento, Consiglio e Commissione.

Infatti, l’UE è rimasta, con Svizzera e UK, l’unica a rifiutare ogni proposta di moratoria e a difendere gli interessi di Big Pharma; il nostro governo, al di là delle dichiarazioni fatte a uso di un mainstream mediatico compiacente, sostiene attivamente e irresponsabilmente questa posizione, anteponendo i profitti delle multinazionali del farmaco alla salute dei propri cittadini. Il rischio è evidente: potremo anche essere tutti vaccinati ma, se arriverà una nuova variante contro la quale i vaccini non saranno efficaci o saranno solo parzialmente efficaci, tutto rincomincerà da capo, lockdown e decessi.

2. La comunicazione istituzionale o para-istituzionale, continua a essere un disastro con risultati spesso controproducenti; un solo esempio: aver affermato per mesi che il vaccino avrebbe bloccato la trasmissione dell’infezione, senza invece spiegare che le percentuali di efficacia citate si riferivano alla capacità di bloccare il passaggio dall’infezione alla malattia grave, ha fatto sì che quando si sono verificate le prime infezioni di persone vaccinate, i no-vax abbiano avuto buon gioco nel sostenere che i vaccini non funzionavano. Eppure già il 20 novembre 2020 si sapeva che i trial di ricerca avevano testato l’efficacia nel bloccare l’evoluzione della malattia e non la trasmissione del virus ( mia diretta facebook del 23/11/2020). Una spiegazione corretta avrebbe reso più semplice alla popolazione comprendere perché anche alle persone vaccinate debba essere raccomandato di rispettare le norme sui distanziamenti e sull’uso della mascherina.

Stesso ragionamento si può fare sulla mancanza di informazioni corrette e complete sui possibili effetti collaterali dei vaccini; la decisione di ignorarli, o comunque sottovalutarli, nella comunicazione ufficiale si è scontrata con l’esperienza quotidiana di migliaia di persone, generando paura e sfiducia verso le istituzioni. Come testimoniano alcune ricerche, metà, se non di più, di coloro che a oggi non si sono sottoposti alla vaccinazione non sono ideologicamente no-vax, ma hanno paura e vorrebbero spiegazioni più precise e meno confuse; esattamente il contrario di quello che sta accadendo. Sarebbe inoltre corretto che i medici che compaiono spesso in televisione, così come le fondazioni e i centri di ricerca che con grande frequenza esprimono pareri e forniscono elaborazioni di dati, dichiarino preventivamente se ricevono fondi dalle aziende che producono vaccini: trasparenza e correttezza di rapporto con il pubblico dovrebbero essere elementi insostituibili.

Per fermare una pandemia è necessario modificare dei comportamenti legati alla quotidianità, per fare questo è fondamentale un rapporto di fiducia da parte della popolazione verso le istituzioni sanitarie; chi tratta i propri cittadini come dei bambini ai quali è meglio non dire tutta la verità non può sperare di godere di fiducia da parte di costoro.

3. Con la circolare retroattiva del 6 aprile l’INPS ha annunciato che le quarantene di coloro che sono venuti in contatto con un positivo non potranno più essere pagate perché il governo ha stanziato i fondi solo fino al 31 dicembre 2020: un autogoal incredibile per una strategia nazionale di prevenzione. Ne consegue non solo una discriminazione di classe, infatti chi svolge un lavoro manuale non avrà la possibilità di fare smart working e rischia di restare a casa senza stipendio, ma anche un danno alla salute collettiva: infatti spingerà molte persone a nascondere eventuali contatti e ad andare ugualmente a lavorare per non perdere giorni di paga. Tale situazione per ora resta ancora sospesa in attesa, si spera, di un urgente intervento riparatore da parte del governo.

4. La vaccinazione è importante ma non sufficiente. Oltre alle misure di precauzione resta fondamentale il tracciamento (contact tracing) per seguire la catena di trasmissione del virus e per isolare le persone positive evitando ulteriori contatti. È la base di qualunque strategia di sanità pubblica di fronte a una pandemia; ma, dopo una fase dove è stata seguita a macchia di leopardo, oggi in Italia è stata completamente abbandonata; la decisione è ancor più grave quando, come nella situazione attuale, si dispone di vaccini che solo parzialmente evitano la trasmissione del virus. Per questa stessa ragione è anche importante rendere disponibili gratuitamente i tamponi invitando la popolazione a farvi ricorso, ogni qualvolta si ritenga di poter aver avuto un contatto a rischio.

Il tampone e il vaccino non sono sovrapponibili: il vaccino protegge dall’evoluzione della malattia e in parte dall’infezione, ma non dice nulla sulla situazione clinica hic et nunc; il tampone indica se una persona in quel momento è positiva e può quindi trasmettere il virus. I due strumenti dovrebbero essere integrati fra loro in una logica di complementarità. Rinunciare alla gratuità del tampone perché questo offrirebbe una ragione in più ai no-vax per non vaccinarsi, è una visione miope e foriera di ulteriori disastri.

5. L’annuncio dell’imminente avvio di una terza vaccinazione per i fragili, per gli anziani e a seguire per il personale sanitario ed infine per tutta la popolazione (che in alcune regioni è stata già avviata) non tiene in minima considerazione i reiterati appelli dell’OMS e le dichiarazioni dell’EMA e della FDA. L’OMS ha chiesto a tutti i governi di valutare che per l’interesse collettivo dell’umanità la priorità non è la terza vaccinazione nei Paesi ricchi, ma rendere disponibili i vaccini nel terzo mondo. Il nostro esecutivo ha totalmente ignorato questo autorevole richiamo; ma ha ignorato anche la dichiarazione dell’EMA e della FDA del 17 settembre sulla necessità di eseguire ulteriori approfondimenti prima di prevedere un uso generalizzato della terza vaccinazione, limitandola per ora alle persone fragili e agli anziani. Nella medesima direzione va un lavoro scientifico pubblicato il 13 settembre su The Lancet da importanti ricercatori, tra i quali Philip R Krause, Vicedirettore FDA (Ufficio per la ricerca e la revisione dei vaccini).

Le motivazioni citate a sostegno di tale cautela sono varie, tra queste:

– insufficienza dei dati sulla terza dose forniti dalle aziende produttrici;
– necessità di approfondire ulteriormente la durata e la potenza della risposta immunitaria compresa quella cellulo-mediata, sia verso la capacità protettiva verso l’infezione, sia verso l’evoluzione della malattia, le due risposte infatti non sembrerebbero sempre viaggiare in sintonia tra loro;
– importanza nel monitorare precocemente e con continuità il manifestarsi di nuove varianti verso le quali accelerare la ricerca di nuove versioni di vaccini in grado di contrastarle;
– evitare di utilizzare per la terza vaccinazione il prodotto precedente che potrebbe presto risultare superato con una perdita significativa di efficacia e che renderebbe impossibile poter procedere in tempi brevi con un’ennesima quarta vaccinazione. La raccomandazione, che arriva dal mondo scientifico internazionale, sottolinea l’importanza di procedere attraverso un approccio che tenga conto dello stato attuale delle conoscenze, ancora limitate e che si rivolga a fasce specifiche di popolazione senza coinvolgere, per ora, l’intera cittadinanza.

Attenzioni ancor più necessarie alla luce di quanto sta già avvenendo in Israele dove è all’ordine del giorno il dibattito sulla quarta dose.

Tutti questi ragionamenti, che dovrebbero suggerire cautela, non sembrano scalfire minimamente le certezze dei nostri ministri, né stimolare qualche presa di posizione di quel che resta del CTS che pare sempre più appiattito su compatibilità dettate dal quadro politico.

La pressione di Big Pharma in questa direzione è molto forte, eppure, non dovrebbe sfuggire né al mondo politico, né al mondo scientifico una semplice banalità: le grandi multinazionali farmaceutiche produttrici di questi vaccini e che operano in un sistema oligopolistico, non hanno come interesse prevalente l’eradicazione della pandemia, bensì il passaggio da una condizione di pandemia a una situazione endemica che permetta loro di moltiplicare per 4-6 volte e forse di più il prezzo dei vaccini e di procedere con una vaccinazione periodica (ogni 9-15 mesi) nel mondo ricco che garantisca loro immensi profitti. Lasciando ovviamente il sud del mondo al proprio destino di morte.

La mancanza di una visione strategica sul Servizio Sanitario Nazionale

La gestione dell’attuale fase della pandemia s’intreccia con il dibattito sulla riorganizzazione del Servizio Sanitario Nazionale e sull’uso delle risorse provenienti dell’Europa. Su questo grande capitolo, che riguarda il nostro futuro, sarebbe necessario un approfondimento specifico; in questa sede mi limito ad evidenziare alcuni dei principali limiti che si stanno evidenziando a livello nazionale e in Lombardia.

A livello nazionale. Nonostante il Recovery Plan nasca dall’emergenza pandemica, i fondi che complessivamente arriveranno all’Italia destinati alla sanità rappresentano una piccola quota della cifra totale che riceverà il nostro Paese. Altri sono gli interessi che hanno avuto il sopravvento e alcuni di loro, ad esempio le grandi opere, sono in forte continuità con quel modello di sviluppo (deforestazione massiccia, allevamenti intensivi, abbattimento delle barriere tra le specie e quindi zoonosi ecc. ecc.) che da qualche decennio regala (e continuerà a regalare) all’umanità le pandemie. Ciò nonostante, mai, nel recente passato, si è avuta una tale disponibilità di soldi per interventi in campo sanitario; l’occasione è unica per individuare le nuove priorità del SSN e una conseguente riorganizzazione, se solo si avesse una visione strategica sulla sanità che nel governo italiano, oggi, non esiste.

Quelli che seguono sono alcuni dei punti essenziali, senza una pretesa di completezza, di una necessaria rivisitazione del nostro SSN:

– passaggio da una medicina concentrata solo sull’individuo a una medicina di comunità fondata sulla programmazione sanitaria;

– individuazione dei bisogni prioritari di ogni territorio attraverso ricerche epidemiologiche finalizzate alla costruzione di programmi con precise priorità i cui risultati siano verificabili di anno in anno;

– coinvolgimento dei comuni e dei sindaci all’elaborazione dei piani di salute territoriale; potenziamento della prevenzione, della sanità territoriale e delle cure primarie;

– centralità dei distretti socio-sanitari e delle strutture intermedie fra le quali le case di comunità;

– riduzione della presenza del privato e soprattutto modifica del rapporto pubblico-privato il quale deve inserirsi nella programmazione territoriale con indicazione e verifica dei risultati attesi;

– potenziamento e adeguamento dei dipartimenti d’emergenza e quindi delle strutture ospedaliere nei territori ove sono carenti ecc.

Gli interventi individuati dal ministero non contengono alcun disegno complessivo inserito in una visione strategica della sanità per il futuro prossimo, ma si limitano a tappare i buchi più vistosi nell’attuale organizzazione sanitaria e a prevedere un generico e generalizzato ammodernamento nella rincorsa delle tecnologie più avanzate, come se questo sia stato il limite prioritario nelle difficoltà riscontrate nel contrasto alla pandemia.

In Lombardia. Dentro questo contesto, ampia è la libertà lasciata alle singole regioni di gestire i fondi a loro destinati, purché rispettino i generici settori d’attribuzione delle singole spese. In regione Lombardia l’uso dei fondi che stanno arrivando dall’Europa si intreccerà con gli interventi previsti dalla nuova legge sull’organizzazione della sanità regionale che dalla fine di quest’anno dovrà sostituire la L. 23 che ha concluso la sua fase quinquennale di sperimentazione evidenziando, durante questi ultimi venti mesi, tutta la sua inadeguatezza e pericolosità.

Il testo di legge presentato dall’assessora Moratti crea le condizioni per ampliare ulteriormente il peso della sanità privata arrivando a prevedere che gran parte dei servizi territoriali, comprese case di comunità e servizi operanti nel campo della prevenzione, possano essere gestiti da privati. Ma prevenzione e privato in sanità sono un ossimoro, chi investe nella sanità privata trae profitti sulle malattie e sui malati non certo sulle persone che restano sane; per un privato la prevenzione o non è di alcun interesse o addirittura rappresenta un ostacolo ai propri potenziali guadagni.

Mi limito solo ad un altro esempio che ben illustra la filosofia di questa controriforma: secondo la giunta lombarda la riduzione delle liste d’attese per le visite e gli esami dovrebbe essere ottenuta non aumentando gli ambulatori pubblici, assumendo nuovi medici, limitando l’attività intramoenia fino al rientro nei tempi d’attesa ufficialmente stabiliti, ma distribuendo soldi ai privati e aumentando la quota delle attività svolte da loro in regime di convenzione/accreditamento.

Nel frattempo, in Lombardia, anche nell’europea Milano, varie migliaia di cittadini sono privi del Medico di Medicina Generale (MMG), obbligati o a non curarsi o a pagare di tasca propria; certamente il numero ridotto di MMG rimanda a responsabilità nazionali, ma in Lombardia tutto si è fatto e si sta facendo per rendere impossibile la vita ai medici di famiglia spingendoli a cercarsi un’altra collocazione professionale. D’altra parte, il presidente Attilio Fontana è un grande sostenitore del numero due della Lega, il ministro Giancarlo Giorgetti, che esattamente due anni fa dichiarava “Nessuno va più dal medico di famiglia. Medicina di famiglia un mondo finito”. Le conseguenze le abbiamo sperimentate tutte e per evitare di doverle affrontare nuovamente un coordinamento di decine di associazioni si sta battendo per bloccare la nuova legge. “Errare humanum est, perseverare autem diabolicum”.

Vittorio Agnoletto, medico, insegna “Globalizzazione e Politiche della Salute”, all’Università degli Studi di Milano, resp. scientifico dell’“Osservatorio Coronavirus”, membro del direttivo nazionale di Medicina Democratica.

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17 dicembre 2024
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