Dirsi “di sinistra” non fornisce più da tempo una rendita elettorale di posizione a chi si dichiara tale. Lo sapevano già coloro che negli anni passati avevano costruito prima Alba, poi Cambiaresipuò e poi ancora L’Altra Europa, escludendo la parola sinistra dal loro logo: non che fossero di destra o di centro, o che rinnegassero i valori storici – quali? – della sinistra, cercavano solo di costruire consenso su altre basi, mettendosi in gioco con proposte e impegni più o meno concreti. Se ne sono però dimenticati i promotori della lista La sinistra: una lista abborracciata all’ultimo momento dopo molti incomprensibili litigi, andirivieni e veri e propri linciaggi dei propri esponenti. Ma non fornisce più una rendita di posizione nemmeno chiamarsi Verdi: altra lista abborracciata all’ultimo momento, con pochi agganci con le molte battaglie per l’ambiente (alcune in corso da decenni!) e le recenti mobilitazioni per il clima in campo anche in Italia (esclusi i volantinaggi dell’ultima ora). L’avanzata dei Verdi in diversi paesi europei non è un riflesso passivo della battaglia ingaggiata da Greta Thunberg; è in larga parte il frutto di un impegno intenso e capillare, per lo meno sul piano informativo e didattico, che in Italia è mancato o è stato del tutto insufficiente e per questo ignorato. Certo, anche grazie al fatto che in nessun altro paese stampa e media sono stati altrettanto compatti contro le tante lotte – anch’esse di valenza generale - per la salvaguardia o la valorizzazione dei territori, come quelle NoTav e NoTap; o altrettanto sordi e ciechi di fronte alle grandi minacce che incombono sul pianeta (l’apocalisse climatica e la distruzione della biodiversità) che la maggior parte dei politici di destra come di sinistra (per non dire tutti) nemmeno conosce, o non ritiene comunque temi degni di una chiamata alla mobilitazione. Un atteggiamento certamente comprensibile, perché affrontare quei temi richiede impegnare e impegnarsi a un cambiamento radicale del proprio agire e delle proprie proposte che poco ha a che fare con i modi tradizionali – a cui non crede più nessuno – con cui i programmi, elettorali e non, cercano di affrontare le questioni fondamentali del vivere quotidiano: redditi, lavoro, salute, abitazione, convivenza, cioè migranti, o famiglia (che vuol poi dire rapporto tra uomo e donna, ma anche tra genitori e figli).
I tempi richiedono un approccio radicalmente diverso, che per ora solo papa Francesco (e pochi altri) hanno dimostrato di saper adottare: con molti importanti discorsi e soprattutto con l’enciclica Laudato sì. Un’enciclica a cui nessun politico non razzista e reazionario ha mai smesso di fare qualche “richiamo d’ufficio”, spesso senza nemmeno averla letta e, sicuramente, senza averne tratto un qualche insegnamento. Solo una riconsiderazione radicale del rapporto tra essere umano e ambiente, tra le nostre vite e il resto del vivente, tra un presente presentato come immutabile e un futuro evanescente, se non terrorizzante, può rimettere in piedi una prospettiva politica – cioè, di autonomia personale e di autogoverno collettivo – entro cui collocare anche le rivendicazioni fondamentali portate avanti dalle lotte sociali nel corso della lunga storia del movimento operaio. Al di là di questa prospettiva resta solo la paura: paura del “diverso”; di perdere a suo vantaggio quel poco che ancora si ha, che poi non è né benessere né rispetto, ma solo la fatica del vivere e l’idea falsa di una “identità” che dovrebbe accomunare persone che in realtà non provano alcun piacere nello stare insieme: nessuno di noi desidera vivere a fianco dei seguaci di Salvini – anche se le regole della convivenza ci impongono di farlo – come nessuno dei seguaci di Salvini è fiero di convivere con noi, l’altra parte di quegli “italiani” che tanto invocano. Questa paura, che ha invaso non solo l’Italia, ma un po’ tutto il mondo, è quella che ha permesso di realizzare (per ora) la più grande operazione mediatica messa in atto alla svolta del secolo: scaricare su chi sta peggio di noi, nel nostro paese come nel mondo intero, criminalizzandolo, la responsabilità del malessere e della miseria provocate da quell’1 per cento che sta appropriandosi a passi da gigante delle vite e del pianeta (la “casa comune”) di tutti.
L’altra paura, quella che molti di noi – ma evidentemente non tutti, e neanche la maggioranza – provano sempre più intensamente, fino a venirne metaforicamente paralizzati, è quella provocata dall’affermazione non solo di Salvini, ma di tutte le destre xenofobe, razziste e maschiliste in larghe parti del mondo; e persino nei più insospettati anfratti della nostra società, quelle che credevamo immuni, come la Riace di Lucano, la Lampedusa di Bartòlo, la Valdisusa di trent’anni di resistenza contro lo stupro di un territorio e di una comunità. A questa paura, e non certo all’adesione a una svolta che non c’è mai stata, è senz’altro riconducibile la piccola e politicamente insignificante “rimonta” del PD (l’inutile mito del “voto utile”); ma anche il crollo dei 5Stelle, non più visti come un baluardo contro i progetti devastanti che accomunano sia PD che Lega a tutto l’establishment parassitario che sta divorando il paese insieme alle nostre vite. Se il Tav “deve” essere fatto, se per “liberarci” dai migranti dobbiamo consegnarli ai predoni della Libia (che con le motovedette donate dall’Italia non solo catturano i migranti per riportarli da dove cercano di scappare, ma cacciano anche i pescatori italiani - “Prima i libici!” - dal mare che l’Imo gli ha attribuito come fosse proprietà privata), ebbene, allora tanto vale consegnarsi a chi quelle cose le sa fare meglio. Nessun dubbio che in questo caso vinca Salvini.
Per questo, più che nella rinascita dei partiti esistenti, occorre forse lavorare innanzitutto alla promozione di un vasto movimento di opposizione alle più pericolose politiche messe in atto dagli organi dell’Unione perché è solo l’esistenza di una controparte comune che può permetterci di cominciare a unificare le mille istanze che oggi si presentano in ordine sparso ai grandi appuntamenti del secolo.